giovedì 11 luglio 2024

Yellowface

  • Titolo: Yellowface
  • Titolo originale: Yellowface
  • Autrice: Rebecca F. Kuang
  • Traduttrice: Giovanna Scocchera
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788804777533
  • Casa editrice: Mondadori
Trama


Che male può fare uno pseudonimo? Juniper Song ha scritto un libro di enorme successo. Però forse non è esattamente chi vuole far credere di essere. June Hayward e Athena Liu, giovani scrittrici, sembrano destinate a carriere parallele: si sono laureate insieme, hanno esordito insieme. Solo che Athena è subito diventata una star mentre di June non si è accorto nessuno. Quando assiste alla morte di Athena in uno strano incidente, June ruba il romanzo che l'amica aveva appena finito di scrivere ma di cui ancora nessuno sa nulla, e decide di pubblicarlo come fosse suo, rielaborato quel tanto che basta. La storia, incentrata sul misconosciuto contributo dei cinesi allo sforzo bellico inglese durante la Prima guerra mondiale, merita comunque di essere raccontata. L'importante è che nessuno scopra la verità. Quando però qualcosa comincia a trapelare, June deve decidere fino a che punto è disposta a spingersi pur di mantenere il proprio segreto. Un romanzo spassosamente tagliente che parla di diversità, razzismi, privilegi e appropriazione culturale. E dei limiti che non si dovrebbero mai superare.


 Recensione e commento

Vi ricordate di quando nel 2021 era venuto fuori lo scandalo dello sfruttamento dei lavoratori da parte di Grafica Veneta? C’era stato un piccolo terremoto in tutto il settore dei social media che parlavano di libri, ma poi non se n’è più saputo nulla. O sbaglio?

Yellowface parla di questo: di come il mondo dell’editoria sia ingiustamente romanticizzato ma sia sotto sotto pieno di criticità dettate dal consumismo più becero che vengono giustificate con la storiella della libertà artistica, panacea di tutti i mali. Questo romanzo è arrivato nella mia vita nel momento perfetto, quello in cui mi sentivo totalmente disillusa e disinnamorata della letteratura, che pensavo avrebbe salvato il mondo e invece è guidata dagli stessi dogmi del fast fashion. 

Nell’ambiente editoriale, che da fuori viene percepito come idilliaco, ci troviamo davanti June, una protagonista opinabile (ne parliamo dopo) laureata in una delle migliori università statunitensi con delle pubblicazioni già all’attivo, ma che non è mai riuscita a sfondare veramente. La sua frustrazione alimenta l’invidia verso Athena, un’autrice che invece ce l’ha fatta e sforna solo best seller. Le cose cambiano nel momento in cui Athena muore tragicamente e June riesce a mettere le mani sulla bozza di un manoscritto che racconta la storia prima dei soldati e poi dei lavoratori cinesi e del contributo che hanno dato agli Stati Uniti. Ora seguitemi, perché c’è una matassa da sbrogliare: June spaccia il manoscritto come proprio, ci lavora colmando i vuoti e cambiando delle determinate scene. Questa è la narrazione lineare dei fatti, ma poiché il libro è interamente raccontato dal suo punto di vista assistiamo a tutte le giustificazioni che accampa per farci sapere che no, non ha plagiato nulla, sarebbe stato un peccato che un libro del genere non vedesse mai la luce e che comunque è tanto suo quanto di Athena perché ci hanno equamente lavorato dato che lei ha studiato tutto sull’argomento. È la pallina sul piano inclinato che diventa impossibile da fermare e vediamo June fare esattamente il contrario di quello che diceva Ursula K. Le Guin. Secondo Le Guin scrivere significava mentire per raccontare la verità: June, invece, riesce a mentire anche quando dice la verità. Riesce sempre a manipolare i fatti a suo favore  (almeno nella sua testa) e non è mai credibile, per esempio cambia il suo nome in “Juniper Song”, che è effettivamente il suo secondo nome, datole da sua madre come reminiscenza di una fase hippy, ma ciò fa sì che il pubblico la percepisca come autrice di discendenza asiatica e inevitabilmente si sentirà preso in giro quando scoprirà che non è così (tipo quando scopri che il “formaggio grattugiato senza lattosio” è lo stesso identico formaggio che viene venduto a un euro un meno perché dopo un tot di stagionatura il lattosio decade naturalmente. Il marketing non ha mentito scrivendo "senza lattosio", ma ha fatto comunque credere al consumatore qualcosa di sbagliato). 

Eppure, non è solo colpa di June, perché per quanto quello che commette sia moralmente sbagliato (e spesso anche illegale) sono numerose le occasioni in cui potrebbe essere fermata. Ci sono dei problemi strutturali che esulano dall’esperienza di June, a cominciare dal fatto che spesso editor e correttori di bozze non sempre hanno la preparazione sufficiente per mettere le mani su determinate storie. I tagli al manoscritto di Athena sono indiscriminati e vanno spesso a toccare delle scene chiave e importanti per la categoria presa in esame, oppure vengono aggiunte delle dinamiche che nella cifra totale del libro fanno sugarcoating nello stesso modo in cui spesso le storie che raccontano la Shoah vanno a finire a tarallucci e vino perché l’americano buono di turno arriva a salvare lo sfortunato ebreo prima che cada nelle mani dei nazisti. Il meccanismo che viene messo in atto è esattamente quello, tutto finalizzato a non fare sentire in colpa il pubblico. Inoltre, June rifiuta la sensitivity reader, che sarebbe una persona appartenente alla categoria di cui si parla che avrebbe il compito di trovare un eventuale sguardo razzista (anche involontario) nella rappresentazione. Ho notato che in Italia il sensitivity reader viene percepito come “un non voler offendere nessuno”, quando in realtà il suo compito sarebbe quello di assicurarsi che la storia sia credibile (mi è capitato di leggere storie con personaggi gender-fluid che non avevano una rappresentazione offensiva: avevano una rappresentazione che semplicemente non aveva senso e non stava in piedi) per cui mentre June ci racconta tutto il processo di editing, dei tagli, delle aggiunte e dei cambi, io mi mettevo le mani in testa sapendo che sarebbe stata una catastrofe, perché autrice-ladra e editor possono essersi informate sui fatti storici in sé, ma non sul modo corretto di raccontarli, spogliandosi della visione occidentale. E infatti, quando finalmente il libro esce, per quanto sia stato un enorme successo editoriale, riceve esattamente le stesse critiche che avrei mosso io se avessi davvero letto il romanzo pubblicato da June. Il processo di editing tratta il lettore implicito di June come uno smidollato incapace di informarsi e per il quale il messaggio deve essere predigerito. Il manoscritto di Athena prevedeva che chi leggesse facesse uno sforzo cognitivo per capire al meglio la storia, mentre l’obiettivo adesso viene cambiato e per allargare il pubblico (ergo, vendere di più) il libro viene semplificato e spiegato. 

Tutti i tagli indiscriminati al manoscritto senza un’alzata di sopracciglia da parte di June dimostrato la sua totale mancanza di attaccamento alla storia che racconta. Il suo flusso di coscienza quando si parla della pubblicazione di un grande best seller si concentra su quanto potrà guadagnarci, sul prestigio sociale, sullo scalare delle gerarchie, sul domandarsi se verrà prodotto un film e sul fare parte di un'élite. La questione del profitto è comprensibile nella misura in cui si considera la scrittura un lavoro come tutti gli altri, con il quale giustamente ci si può mantenere, e fin qui va tutto bene, ma personalmente i miei genitori mi hanno insegnato che quando si viene pagati per qualcosa, allora la si deve fare bene, e June questo non lo fa. Al contempo il clima di pressioni sociali per continuare a pubblicare, per produrre sempre di più e non scendere dalla cresta dell’onda scoperchia un vaso di Pandora che mostra tutte le ipocrisie di un ambiente che dall’esterno sembra vergine ma che all’interno presenta ogni singola criticità del consumismo. In editoria, come in qualsiasi altro ambito, conta solo vendere, a qualsiasi costo: si salta su qualsiasi treno, senza limiti morali (se vi ricorda la pubblicazione del libro di Vannacci da parte di Piemme immagino che non sia un caso). È un ambiente in cui la verità non ha nessuna importanza e spesso si banchetta sui cadaveri ancora fumanti, infatti, quando la questione del plagio viene fuori (perché inevitabilmente viene fuori) si scatena il putiferio sui canali social dove blogger, tiktoker, bookstagrammer si scatenano, ma sono anche gli stessi editori a mungere la mucca finché sanguina pubblicando nella stessa linea editoriale libri che affermano cose diametralmente opposte. 

Yellowface è un libro che parla di persone problematiche, perché per quanto sia raccontato dal punto di vista di June, che copia un libro e ruba letteralmente una storia, i problemi del settore non sono certo iniziati con lei ed è impossibile risalire a chi sia il solo e unico responsabile. Gli editori non sono esenti da bias cognitivi culturali e non solo propinano stereotipi nei libri che pubblicano, ma trattano anche scrittori e scrittrici di categorie marginalizzate come dei token da sfoderare quando c’è da appuntarsi sul petto la medaglia della diversità. Scrittori e scrittrici di etnie diverse si riducono a delle quote che non devono superare una certa soglia e che non possono scrivere di quello che vogliono, ma devono parlare esclusivamente della loro marginalizzazione, anche quando non esiste. Kuang, in sostanza, ci racconta una storia in cui ci sono solo colpevoli: June è la prima colpevole perché ruba il lavoro di un’autrice morta e si giustifica in ogni modo possibile. Eppure, nonostante sia una narratrice inattendibile che si contraddice spesso, ci rende suoi complici facendoci tifare per lei. La protagonista sbaglia, questo è oggettivo, ma poi arrivano le shitstorm, le minacce di morte, le illazioni, e alla fine tutta questa sete di sangue del pubblico non porta a nulla perché, di nuovo, la verità non conta: è lo scandalo che fa salire le vendite e quindi ben venga, nella sostanza nulla cambia. Anche questo è qualcosa che abbiamo visto tantissime volte, nei miei cinque anni di blog ho assistito a decine di blogger che copiavano le recensioni e davanti all’evidenza non hanno mai porto scuse e hanno continuato in modo totalmente indisturbato. Dopo un po’ si smette di parlarne per passare a un altro argomento più in voga che faccia trend in quel momento e non ci sono mai delle reali conseguenze per i colpevoli. Questo mi fa rabbia e Kuang capisce e veicola questo sentimento, mi prende per mano e mi mostra che a nessuno interessa davvero, perché finché l’editore può fare soldi è disposto a pubblicare anche i libri inchiesta che gli danno contro e se pensate che sia paradossale, pensate a tutte le volte che, durante la vostra fase adolescenziale punk andavate a comprare le magliette con il simbolo dell’anarchia da colossi come H&M: la pubblicità negativa non esiste e il fatto stesso che un libro che critica così aspramente il mondo editoriale sia stato pubblicato in Italia da Mondadori penso che la dica lunga.

Persino Athena, la vera autrice del romanzo che June ruba, è a sua volta sia vittima che carnefice. Lei è una che ce l’ha fatta, è arrivata in cima alla montagna, ma al prezzo di essersi piegata alle regole del gioco. Lei sapeva di essere un token per il suo editore e decide di prestarsi al sistema. Per quanto fosse un’autrice abile oggettivamente, è sempre stata privilegiata per la sua condizione economica, per cui spesso quando racconta storie di marginalizzazione non sta davvero parlando di sé, perché non ha mai vissuto nulla di realmente degno di essere raccontato. Per cui Athena fa una cosa agghiacciante (il modo in cui lo racconta Kuang mi ha fatto accapponare la pelle) e lei stessa fa appropriazione esperienzale, prendendo le vicende traumatiche di chi conosce e trasformandole in parole su carta per ricevere premi e produrre romanzi. Non si limita a raccontare gli eventi, ma entra nelle vite delle persone, anche quella della protagonista, entra in empatia con loro, si finge amica affinché le raccontino tutte le loro emozioni e che lei possa avere tutti gli elementi per scrivere una storia ricca di shock factor e impatto emotivo, tanto il prezzo di quel dolore non lo paga lei.

Non è vero che in Yellowface bene e male si mescolano: la linea tra bene e male è ben definita, quello che è labile è il confine tra vittime e carnefici, perché in momenti diversi si può essere entrambe le cose. Per quanto mi riguarda, questo romanzo è stato dirompente e sotto certi aspetti mi ha dato il colpo di grazia, eppure ne avevo bisogno, perché sono abbastanza stanca di vedere il mondo dei social media dedicato ai libri popolato da persone che pensano di essere migliori degli altri, quando alla fine la cifra del discorso è spingere in gola ai follower libri di cui non hanno bisogno solo perché in omaggio danno la shopper. 

Yellowface racconta di un mondo composto da persone incapaci di fare un passo indietro e punta inesorabilmente il dito. Anche contro di noi e anche contro di me.

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