martedì 31 gennaio 2023

Zombie Friendly: ci si vede all’Inferno

 Ciao bella gente! I libri per la lettura dell’evento di oggi sono stati omaggiati dall’autrice Giulia Reverberi e ringrazio tutte le blogger che hanno accettato di vivere quest’avventura con me. Cominciamo questo viaggio nell’apocalisse zombie.



  • Titolo: Zombie Friendly
  • Autrice: Giulia Reverberi
  • Lingua: italiano
  • Casa editrice: autopubblicato
  • Codice ISBN: 979-8352564660
Trama

Andrew Woodcrown ha sempre pensato che la fine del mondo sarebbe avvenuta in modo drammatico: un asteroide che colpisce il pianeta, uno tsunami che si abbatte sulle terre abitate, un olocausto nucleare che spazza via ogni cosa. E invece no. Nessun comunicato alla televisione, nessun utente social che scrive stati sarcastici su come sarebbe morto da lì a pochi secondi, nessun cielo in fiamme adatto per le foto pre-morte degli influencer.

Il genere umano si è estinto nel silenzio, uno di quelli pieni di imbarazzo, che seguono una battuta brutta. Una folla di zombie ha invaso la tranquilla cittadina americana di Redwood Town, mentre Andy era solo in casa con il suo bassotto Woodstock. Da quel momento la sua vita è cambiata, il suo unico lavoro è diventato non farsi ammazzare. E quando le scorte di cibo hanno iniziato a scarseggiare, ha deciso di affrontare un viaggio alla ricerca della cosa più pericolosa mai esistita: gli esseri umani.

Come sopravviverebbe una persona normale in un apocalisse? Armato di ansia, sarcasmo e cultura nerd, Andy tenta tutti i giorni di rispondere a questa domanda, conscio di avere più limiti di una funzione algebrica e meno possibilità di una relazione nata dalle app di incontri.


I Maya non avevano dato una profezia ma un consiglio.

Dalla penna social di Giulia Bifrost, una storia che parla di identità e coraggio, in un mondo in cui l'apocalisse non è la cosa peggiore che può capitare.


Gabriella Giliberti, giornalista e content creator, nella sua prefazione delinea il percorso evolutivo che riguarda la figura dello zombie, esaminando casi illustri e tracciando un percorso volto a far arrivare il lettore alle potenzialità di questi non-morti, spesso sottovalutati. Abel Montero, con la sua postfazione, permette di dare un'occhiata al dietro le quinte dell'autoproduzione del testo, con particolare attenzione alla comunicazione che ha permesso a questa storia di trovare il suo zoccolo duro di lettori prima ancora di essere messa su carta.


[Attenzione] Questa copia non possiede inserti nè pagine colorate. Per maggiori informazioni seguite le pagine social dell'autrice.


Recensione e commento

Prima di buttare giù la bozza della recensione di Zombie Friendly - ci si vede all’Inferno ho aspettato un paio di giorni dal termine della lettura, non perché non avessi nulla da dire, ma perché avevo bisogno di mettere in ordine le idee.

Giulia, la nostra villain del cuore
Parto con lo spiegare che questo libro è il primo autopubblicato che recensisco sul blog: non ho pregiudizi verso le autrici e gli autori self, ma so l’impatto economico che una recensione negativa può avere su chi non ha alle spalle una casa editrice. Ecco, con Giulia Reverberi (sui social @giuliabifrost) sono andata su sicuro, perché sapevo di non correre questo rischio. Conoscendola attraverso altre piattaforme sapevo di condividere con lei una certa visione della letteratura e infatti non sono rimasta delusa, dato che questo romanzo mi è piaciuto molto.

Zofri, così viene colloquialmente abbreviato il romanzo sulle pagine social dell’autrice, è un romanzo psicologico mascherato da post-apocalittico che ha come protagonista Andy, l’unico sopravvissuto alla malattia di tutta la sua famiglia e che già prima di questo evento portava su di sé il peso dell’ansia e del malessere mentale. Ma incredibilmente, come ogni persona ansiosa sa (eccomi! Presente!) l’ansia in determinate situazioni può paradossalmente rivelarsi un’alleata invece di una nemica, perché il suo cervello sempre allerta consente a Andy di avere delle risorse molto adatte alla sopravvivenza, per quanto sul lungo termine l’ipervigilanza possa essere deleteria. Noi persone introverse, poi, abbiamo visto negli ultimi tre anni quanto la nostra propensione alla solitudine sia stata d’aiuto nei momenti peggiori della pandemia e in un certo senso è così anche per l’asociale Andy, che tuttavia, a un certo punto, sente il bisogno di ritrovare un po’ di contatto umano e parte alla ricerca di una colonia sopravvissuta.

È stata questa la parte del libro che ho preferito: scordatevi sparatorie con i proiettili che volano sui non morti e scene d’azione concitate, Zombie Friendly mostra come, anche quando si trova ben oltre l’orlo del collasso, la società mostri sempre gli stessi problemi, le stesse discriminazioni, gli stessi meccanismi finalizzati al mantenimento dello status quo. Anzi, con la popolazione umana tanto ridotta all’osso e l’impossibilità di creare legami al di fuori di una certa cerchia, le dinamiche di potere saranno ancora più esasperate, dato che gli outsider non sono contemplati in un sistema che per girare ha bisogno di compiti precisi e relazioni prestabilite (o così si dice). Anche nelle apocalissi zombie bisogna essere ingranaggi del sistema, in modo non dissimile dal capitalismo.

L’arco di formazione di Andy è quello di una persona sola che cerca una cerchia in cui stare, ma una volta che ci entra realizza di non essere in grado di omologarsi: Andy cammina come loro, ma non è uno di loro e il girone intero degli emarginati potrà rivedersi in lui. Poi, non mancheranno altri personaggi in cui rispecchiarsi: ogni figura secondaria ha il proprio spessore e caratterizzazione e sarà impossibile confondere le loro voci (vi posso solo consigliare di fare attenzione a questo specifico dettaglio). In particolare, quella di Andy è sarcastica e disillusa, suona triste anche quando cerca di buttarla sul ridere perché sopravvive nonostante non gli sia rimasto nulla. Ma del resto sarebbe strano sbellicarsi nella situazione in cui si trova lui. La qualità più apprezzabile di Andy, tuttavia, per me è stata quella di cercare di mantenere un barlume della sua umanità in situazioni che possono sembrare fuori da ogni morale o senza via d’uscita. Nella caratterizzazione del protagonista Giulia Reverberi non commette l’errore di molte autrici, ovvero quello di mettere troppo di sé stessa nel personaggio: se la conoscete un minimo, vi appare subito chiaro che Andy non è autoreferenziale e dice cose che lei non direbbe mai. Anche questo è stato uno degli aspetti più apprezzabili, perché funziona letterariamente parlando e perché denota un certo grado di umiltà da parte di Giulia nel non volersi inserire troppo nella storia.

In un momento storico in cui dimostrare di avere un’utilità, e quindi il valore di un essere umano viene basato sulla performatività, paradossalmente (o forse no) il peso delle parole diventa ancora più importante tanto che il protagonista si troverà spesso nella situazione di decidere se tacere o meno un’informazione, che ai nostri occhi potrebbe sembrare totalmente innocua. Ad esempio, è quasi doloroso vedere con lui, un bisessuale dichiarato, venga categorizzato a forza nella castellina “etero” per comodità di chi lo circonda, perché l’apocalisse non cambia certe cose. Esattamente come in effetti non cambia i pregiudizi razziali e le dinamiche di potere iniziate e mai finite col colonialismo. 

Con il finale che è quasi un preludio del prossimo romanzo, mi viene da pensare che il secondo capitolo della trilogia non soffrirà della sindrome del libro di mezzo: la carne al fuoco è tanta e Giulia dovrà renderci conto di molte cose che in Zombie Friendly sono state accennate per essere sviluppate successivamente. Quindi spero che la nostra villain del cuore si metta a scrivere il seguito al più presto.

Per chiudere, vi posso solo dire che Zombie Friendly - ci si vede all’Inferno è un romanzo validissimo, dalla prosa fluida e sarcastica e che merita il vostro tempo, specialmente se amate le dinamiche interpersonali verosimili e i personaggi con una psicologia ben sviluppata.

martedì 24 gennaio 2023

Intervista a Leonarda Grazioso, traduttrice di Victories Greater than Death

 Ciao, bellissima gente, oggi siamo qui con una rubrica diversa dal solito, perché io e la mia amica del cuore Rossella abbiamo deciso di portarvi non una recensione, ma un’intervista alla traduttrice Leonarda Grazioso, che si è occupata della resa in italiano di Victories Greater than Death, un libro che abbiamo tanto amato e che tocca tantissimi temi diversi (tirando acqua al mio mulino, vi consiglio di recuperare questa recensione). Quindi, bando alle ciance e andiamo a leggere cosa ha da raccontarci Leonarda! Salite a bordo



Ciao, Leonarda! Ti va di parlarci un po' di te? Quando hai deciso di diventare una traduttrice? Quali lingue conosci? 

L’autrice

Volentieri! Innanzitutto vorrei ringraziarvi entrambe per avermi proposto quest’intervista; la mia carriera di traduttrice non è iniziata da molto tempo, ma è la prima volta che mi capita un’opportunità simile e ne sono onorata. Diciamo che la decisione di diventare traduttrice nasce da un’inclinazione che mi sono sentita dentro da sempre, prima ancora di scegliere il liceo – linguistico, ovviamente – e che pian piano ha cominciato a germogliare in maniera più consapevole quando ho deciso di iscrivermi alla facoltà per interpreti e traduttori di Trieste. Dopo la triennale, che ho concluso con una tesi di traduzione letteraria dal francese, mi sono un po’ allontanata dalla traduzione scritta e sono passata all’interpretazione di conferenza. È stato un percorso colmo di sfide ma che mi ha riservato anche tante soddisfazioni, e lo rifarei assolutamente. Però sentivo che non era proprio quello il mio posto felice; sentivo di voler tornare alle mie radici e quindi alla traduzione letteraria. E così, finita la magistrale, approfittando della pandemia, mi sono specializzata in questo settore. Le mie lingue di lavoro principali sono l’inglese e il francese, complici anche le richieste del mercato, ma a volte lavoro anche con il tedesco e lo spagnolo. Se devo scegliere una lingua del cuore, però, è e sarà sempre l’inglese.

Ci parli un po' del processo di traduzione? Io non ne so praticamente nulla? Come avviene? 

 Il processo traduttivo è un po’ come la ricetta della crostata: ne esistono infinite varianti ma ognuno ha la sua, la custodisce gelosamente e la considera la migliore al mondo. Nel mio caso specifico, lascio che sia il testo che ho davanti a dettare l’approccio traduttivo di volta in volta. La teoria di solito vorrebbe che un libro venga letto per intero prima di tradurlo: e sebbene nel caso di Victories Greater than Death sia andata così – per forza di cose, visto il genere – in altri casi mi piace buttare giù una prima bozza “di pancia”, man mano che vado avanti nella lettura, immergendomi nel testo e lasciandomi stupire dagli intrecci della trama come farebbe un lettore qualunque. Ad ogni modo, qualsiasi approccio io scelga, resta sempre fondamentale la fase di revisione: l’ideale, una volta finito di tradurre tutto quanto, è lasciare riposare il testo per qualche tempo e andarlo a ripescare dopo un po’, per lavorarlo al meglio. Proprio come un panetto di pasta frolla.

Leggendo Victories greater than death ho pensato spesso a quanto la traduzione sia stata sfidante. Quali sono stati gli elementi più difficili? 

La traduttrice

Hai proprio ragione, non è stato un libro semplice da tradurre. Tanto per cominciare, Victories Greater than Death presenta tutte le criticità tipiche del genere fantasy e fantascientifico: alla base della storia esistono mondi, realtà, creature, oggetti, dinamiche e luoghi inventati – talvolta resi con nomi interamente di fantasia, senza particolari allusioni (ad esempio i nomi di certi popoli) ma più spesso frutto di giochi di parole ideati dall’autrice sulla base della propria lingua. Per tradurre questi “nomi parlanti”, come vengono definiti in gergo, serve quindi innanzitutto una padronanza completa della lingua da cui si traduce – perché bisogna essere in grado di cogliere ogni sfumatura e ogni gioco di parole; poi serve orecchio per il ritmo della narrazione, cosa che sembra scontata ma non lo è, e per finire direi che ci vuole anche una buona dose di fantasia e di creatività nel maneggiare la propria, di lingua. 

Come ben sappiamo, però, nel caso di Victories Greater than Death le sfide non finivano lì: l’importanza centrale riservata in tutto il libro alle tematiche di genere ha posto una sfida non indifferente in fase di traduzione, visto che in Italia (e in italiano) la questione della scrittura inclusiva è ancora molto dibattuta. Ci sono molte proposte, molte opzioni, molti approcci… però purtroppo ad oggi non esiste un quadro normativo comunemente riconosciuto e accettato, e pertanto è stato necessario affrontare la questione in maniera diversa. Tra l’altro non bisogna sottovalutare il fatto che l’inglese, per sua natura, è molto più avvantaggiato in termini di linguaggio inclusivo rispetto all’italiano: mentre in inglese il problema principale è la scelta dei pronomi corretti – e quindi “basta” fare ricorso a pronomi gender-neutral – in italiano, invece, purtroppo, siamo molto più vincolati (dal punto di vista strettamente linguistico) da tutto ciò che sono articoli, sostantivi, aggettivi e participi passati. Le desinenze che indicano il genere, insomma. Il risultato? Per i personaggi non binari ho scelto di optare per riformulazioni che permettessero di evitare l’uso di articoli, pronomi, sostantivi e aggettivi che ne esplicitassero il genere.

Quanto è durato il processo di traduzione di Victories greater than death?

Non saprei quantificarlo con esattezza; però direi che al netto, fra traduzione e revisione, ci sono voluti circa tre mesetti. Comunque ho continuato ad apportare piccole modifiche fino al giorno stesso in cui ho consegnato.

Hai avuto modo di interfacciarti con l'autrice? Se sì ti piacerebbe parlaci di questa esperienza?In caso negativo cosa ti sarebbe piaciuto chiederle?

Il libro in italiano
Non direttamente. In fase di revisione è emerso un dubbio da parte della CE sulla possibile traduzione di una categoria di creature (accennata in modo generico solo un paio di volte in tutto il libro), e a quel punto abbiamo convenuto che sarebbe stato meglio chiedere chiarimenti direttamente all’autrice, in modo da poter scegliere la soluzione più opportuna. Trattandosi di una serie, per di più fantasy, la prudenza nel tradurre non è mai troppa!

C'è un personaggio di VGTD a cui ti sei affezionata?

Yatto, a mani basse. La sua perenne gentilezza, sensibilità, intelligenza e nobiltà d’animo sono impareggiabili! 

C'è chi dice che tradurre sia anche un atto di tradimento: quanto di te metti nelle tue traduzioni? Ti capita di interferire col testo o cerchi, come tradurre, di "essere invisibile"?

Eh già, il proverbiale “traduttore traditore”… è un detto famoso che, come tanti altri, inevitabilmente attinge a un fondo di verità. Quando si traduce è impossibile lasciare del tutto fuori chi siamo, da dove veniamo, quali esperienze ci hanno formati. E questo non può che trasparire, almeno in minima parte, nel linguaggio che adoperiamo e dunque anche nel nostro modo di tradurre. Possiamo cercare di essere quanto più “imparziali” possibile, ma non lo saremo mai del tutto. E già che siamo approdate su questo punto, ci tengo molto a dire una cosa: nell’immaginario collettivo, il bravo traduttore è… quello invisibile. Però, se volessimo esprimere questo concetto in termini più corretti, dovremmo dire “quello il cui intervento non si fa notare”. Questo perché la questione dell’invisibilità è innegabilmente croce e delizia di ogni traduttore e traduttrice: se da una parte è una bella metafora, visto che rimanda alla naturalezza e scorrevolezza della traduzione intesa come prodotto finito, in contrapposizione alla “calcolatezza” – passatemi il termine – che caratterizza la traduzione intesa come processo; dall’altra, ahimè, questa storia dell'invisibilità finisce troppo spesso per rendere davvero “invisibili” – e dunque sminuire – i professionisti e l’intera professione. Ed è un vero peccato, se ci pensiamo, perché la traduzione in effetti è, proprio come afferma Susan Sontag, il sistema circolatorio delle letterature (e non solo, aggiungerei io) del mondo. Chiusa questa piccola parentesi, cerco di rispondere brevemente alla domanda iniziale: mentre a volte si riesce a essere più o meno invisibili, altre volte diventa necessario intervenire – o interferire, che dir si voglia – per risolvere ad esempio vincoli linguistici e/o problematiche culturali. Ma c’è una consapevolezza che guida tutti i bravi traduttori: e cioè che, a differenza di quanto accade con gli autori, sono loro a dover essere al servizio del testo (e quindi dei lettori) e non viceversa. Ed è questo approccio a guidare le loro scelte. 

Quali sono secondo te gli errori più gravi che si possano riscontrare in una traduzione?

È difficilissimo parlare di “errori” in una traduzione. Quello che io tradurrei in un modo, altri cento traduttori probabilmente lo tradurrebbero in cento modi diversi. Al di là di ciò che poi ricade nella sfera delle preferenze e/o idiosincrasie linguistiche personali, certo, può capitare di imbattersi in errori più o meno gravi. Tra i peggiori ci sono sicuramente quelli di senso, siano essi dovuti a una lettura superficiale o a una conoscenza non perfetta della lingua da cui si traduce. Ma vuol dire che esistono errori meno gravi? Vuol dire che se altero completamente il registro o altre peculiarità espressive di un personaggio – perché non le colgo o perché non le so rendere, se costruisco frasi macchinose perché non riesco a emanciparmi dai vincoli e dagli schemi (anche culturali) della lingua di partenza, se non mi rendo conto di aver utilizzato un calco, se non mi accorgo di aver confuso il nome di un personaggio, se mi sfugge qualche refuso… sono forse errori meno gravi? Forse sì, forse no. Sono sicura che molti miei colleghi non condivideranno la mia stessa opinione. D’altronde, errare è umano e qualche svista può capitare a chiunque. Ma per me – e ci tengo a sottolineare per me, visto che sono consapevole di essere una gran pigno… ahem, perfezionista – è da considerarsi grave qualsiasi errore di cui un lettore/una lettrice si accorgerebbe e che gli/le farebbe storcere il naso. Leggere è una magia e qualsiasi cosa spezzi l’incantesimo, secondo me, rappresenta inevitabilmente un problema.

Altra domanda: ci piacerebbe sapere se oltre che una traduttrice sei anche lettrice. Quali generi ti piacciono di più?

Il fatto di leggere molto “per lavoro” purtroppo mi lascia meno tempo a disposizione per dedicarmi ai miei generi d’elezione. Sono una grande amante dei classici, ma a parte Jane Austen, Oscar Wilde e Emily Brontë parteggio più per i grandi scrittori americani del Novecento. L’età dell’innocenza di Edith Wharton ha un posto speciale nel mio cuore, proprio accanto a Orgoglio e Pregiudizio. Tra i francesi, almeno per quanto riguarda la narrativa, amo Flaubert. Mi piacciono moltissimo i romanzi storici, ma direi che i libri in cui mi rifugio più spesso sono quelli di poesie. 

Puoi svelarci qualche titolo di prossima pubblicazione he stai traducendo?

Domanda difficile per un semplice motivo: ovvero, che la scelta del titolo non è quasi mai appannaggio del traduttore. Se ne occupa di più la redazione, magari di concerto con il reparto marketing. Al traduttore tutt’al più viene richiesto un input, un suggerimento. Però posso dirvi che al momento sto lavorando alla traduzione di un altro young adult – sempre per Fanucci, stavolta di genere crime – e che giusto qualche giorno fa è uscito per Newton Compton Editori “Il cottage degli amori segreti”, un romance natalizio pronto a scaldarvi il cuore in attesa delle feste!

Grazie mille per essere stata con noi! 

Grazie a voi, mi avete fatta sentire una star! ✨🥰





Lui mi ama

  • Titolo: Lui mi ama
  • Titolo originale: KVIKA
  • Autrice: Thóra Hjörleifsdóttir
  • Traduttrice: Silvia Cosimini
  • Lingua originale: islandese
  • Codice ISBN: 978-8804760641
  • Casa editrice: Mondadori
Trama

Lilja ha vent'anni ed è innamorata. Giovane studentessa universitaria, si è subito invaghita di un ragazzo più grande, intelligente e bellissimo, che cita Derrida, legge il latino e cucina pasti vegetariani perfettamente equilibrati. Ma che è anche un traditore seriale e un narcisista. Prima ancora di rendersene conto, Lilja si trasferisce nell'angusto appartamento dove lui vive con uno strano coinquilino, circondata da asciugamani sporchi e Diet Coke sgasate. Mentre la nuova intimità di condividere una doccia e un letto alimenta sempre di più il suo desiderio di compiacere il partner, a mano a mano che la loro relazione si sviluppa le manipolazioni silenziose e pervasive di lui diventano sempre più numerose, gli atti di abuso quasi impercettibili continuano ad aumentare e iniziano a farla crollare. Lilja farebbe di tutto per tenerselo stretto. Così accetta i suoi inganni, razionalizza il suo comportamento tossico e gli permette di superare ogni limite. Nel suo disperato tentativo di essere l'amante perfetta, si ritrova incapace di liberarsi da questo circolo vizioso. Fino a essere costretta a una scelta inaspettata: un amore totalizzante o la possibilità di rimpadronirsi della sua vita. Con stupefacente spudoratezza e candore, Hjörleifsdóttir esplora gli angoli più oscuri delle relazioni, catturando un aspetto perverso e nascosto dell'amore, fa luce sulle correnti di violenza che spesso passano inosservate nelle relazioni sentimentali e illustra abilmente le carenze della nostra cultura nel riconoscere i sintomi della crudeltà. "Lui mi ama" è un romanzo dalla prosa viscerale e poetica, che descrive il percorso di una giovane donna che cerca disperatamente di amare ed essere amata.


Recensione e commento 

Quando Flavia mi ha proposto di partecipare a un evento dedicato a Lui mi ama non mi sarei aspettata una lettura tanto veloce e intensa. Ho iniziato e concluso questo libro di appena 132 pagine nel tempo trascorso al gate in aeroporto e durante il volo.

Ci sono varie caratteristiche di Lui mi ama che sono inscindibili le une dalle altre, per esempio la brevità, dato che nessun capitolo arriva alla pagina e mezza e addirittura alcuni sono lunghi una sola riga. Questo avviene perché il flusso di coscienza della protagonista è ristretto in modo da diventare intensissimo ed è giusto che io vi dica che se siete persone molto sensibili questo libro potrebbe non fare per voi: ci sono delle scene scioccanti, specialmente in materia sessuale, e noi assistiamo alla spirale discendente in cui la protagonista viene spogliata del suo amor proprio uno strato alla volta, fino a che il suo abusatore supera i suoi limiti personali e trasforma i suoi no, in forse, in silenzio assenso, specialmente quando si tratta di pratiche sessuali poco gradite o addirittura umilianti. Oltre al fatto che il linguaggio è molto forte, colorito e spesso volto a suscitare disgusto, infatti siamo ben lontano dai fiabeschi paesaggi islandesi, di cui vi ho messo delle immagini solo per contrasto con la durezza di questa storia, che potrebbe succedere in ogni altra parte del mondo. 

Le parole centellinate consentono di vedere tutte quelle che vanno a segno nella psiche di Lilja, di come, lentamente e una goccia alla volta, il suo ragazzo arrivi a controllare il suo aspetto e ogni altra parte di lei. I suoi pensieri, ormai, sono completamente votati a lui, ne tollera i tradimenti e pensa di meritarsi di essere trattata in quel modo e di dover fare di più per essere all’altezza di un uomo che, visto da fuori è perfetto, ma nelle mura di casa è patologicamente narcisista. Per compiacerlo, Lilja arriva addirittura a diventare nemica delle altre donne, a disprezzarle e talvolta metterle in pericolo, tutto per accontentare alcuni amici di lui che, poverini, non riescono proprio a trovare una ragazza (e ci sarà pure un motivo). Il rapporto tra lei e il suo fidanzato è costantemente sbilanciato, sempre a favore di lui che conosce ogni recondito segreto di lei ed è pronto a usarlo, strumentalizzandolo e mistificarlo, ogni volta che deve fare breccia e ottenere da lei ciò che desidera. Di contro, lei non conosce nulla di veramente intimo di lui, né delle sue ex, alle quali viene costantemente paragonata e che conoscono dettagli della vita personale di Lilja, mentre lei non sa i loro, proprio perché lui pensa di non poter tradire la fiducia delle sue precedenti partner condividendoli, ma non si fa scrupoli a umiliare costantemente la sua attuale compagna. 

È interessante vedere come il personaggio di lui sia ben caratterizzato attraverso le sue azioni, ma anche grazie a quello che non fa: un uomo che non si prende cura dei suoi figli avuti nelle precedenti relazioni è un’enorme, gigantesca red flag. E tutti questi piccoli pezzettini messi assieme formano un quadro in cui lui non è altro che un ragazzino insicuro che ha bisogno di sentirsi dare pacche sulle spalle per gonfiarsi l’ego, cosa molto diversa dall’autostima, di cui, invece, è chiaramente sprovvisto.

Una nota di demerito per me va al finale, che nel gruppo delle blogger dell’evento ha fatto molto discutere. Narrativamente parlando si poteva fare molto di più, perché appare sbilanciato e frettoloso; inoltre, l’arco di formazione della protagonista è monco, poco verosimile il suo cambiamento non è pienamente interiorizzato. Non voglio farvi spoiler, ma sono stanca di finali in cui la salvezza della donna abusata di pende sempre solo ed esclusivamente da una terza persona. 

Lui mi ama è stata una lettura inaspettata e scioccante che consente di entrare nella mente della vittima e di vedere il carnefice dalla sua prospettiva. Per approcciarsi a questa lettura serve tanto pelo sullo stomaco e una situazione emotiva serena. 

martedì 17 gennaio 2023

La Maledizione della Famiglia Flores

  • Titolo: La Maledizione della Famiglia Flores
  • Titolo originale: A Maldição das Flores
  • Autrice: Angélica Lopes
  • Traduttrice: Sara Cavarero
  • Lingua originale: portoghese
  • Codice ISBN: 9788804756637
  • Casa editrice: Mondadori
Trama


La casa della famiglia Flores ha le finestre azzurre, un giardino curato, ed è un luogo speciale: ogni giorno un piccolo gruppo di donne si riunisce al suo interno per ricamare tovaglie, centrotavola, fazzoletti e veli. È il 1918 e Bom Retiro, una tranquilla cittadina nella regione del Pernambuco, nel Nordest del Brasile, vive gli anni di una dittatura violenta, che minaccia e reprime soprattutto la voce delle donne. Ma a casa Flores è diverso: un'oscura maledizione, che vede morire in giovane età tutti gli uomini della famiglia, ha trasformato questo posto in una roccaforte al femminile, dove Vitorina, che ha imparato l'arte segreta del ricamo fino ad allora appannaggio delle suore in convento, la trasmette alle altre. Tra queste, Zia Firmina, la più anziana, fervente cattolica e custode del segreto che grava sulla famiglia; Eugênia, promessa in sposa contro il suo volere a un uomo violento e più vecchio di lei; e Inês, che utilizza un codice fatto di punti ricamati inventato da Eugênia per aiutare quest'ultima a liberarsi di lui. Un vero e proprio linguaggio segreto attraverso cui progettare la fuga.

Una storia che arriva, un secolo dopo, nella Rio de Janeiro di oggi, consegnata sotto forma di un prezioso merletto ad Alice, pronipote di una delle donne Flores: una ragazza dai capelli blu, ribelle, che insieme alla compagna Sofia ricostruirà le vicende della sua famiglia. Sarà riuscita Eugênia a sfuggire al proprio destino? E qual è il segreto nascosto dietro la misteriosa maledizione?

Una toccante storia di solidarietà al femminile, narrata con l'eleganza di un'arte antica e capace di trasmettere il valore del coraggio e della libertà


Recensione e commento


La lettura di La Maledizione della Famiglia Flores è capitata in modo quasi casuale, ma quando Flavia mi ha proposto la lettura di questo libro sapevo, per via del mio vissuto personale, di non poter farmelo scappare.


Non me ne sono pentita: raramente mi è capitato di leggere un romanzo tanto ben bilanciato in ogni sua parte. Infatti, con meno di 230 pagine, questo libro non tira per le lunghe la trama, né la chiude frettolosamente. Non dice mai in dieci parole quello che può essere detto in quattro e riesce a raccontare una storia che intreccia tragedia e speranza con una delicatezza e una dignità estreme. Nonostante non edulcori mai le dinamiche di violenza, esse non vengono nemmeno spettacolarizzate o utilizzate per scioccare: trattandosi di cose che sono successe e continuano a succedere, il tatto dell’autrice nel mostrare senza sfociare nella pornografia del dolore è ammirevole.


Se vi è mai capitato di leggere libri come Il Giardino degli Incontri segreti, di Lucinda Riley, o Pomodori verdi fritti, di Fannie Flagg, conoscerete bene la struttura che alterna passato e presente coinvolgendo protagoniste diverse. Il passato, qui, svolge un ruolo fondamentale per spiegare dei nodi del presente ed è di fatto la parte più importante. Ho apprezzato tantissimo le vicende di queste donne del XX secolo perseguitate da una maledizione che le priva degli uomini della loro famiglia, ma la questione ha dei risvolti estremamente positivi nella vita quotidiana, specialmente in termini di libertà, poiché non avere un padre consente loro di non essere date in sposa senza consenso e non avere marito consente loro di essere indipendenti e dover rendere conto solo a sé stesse. 


Un posticino speciale in La Maledizione della famiglia Flores è riservato al ricamo, attività tradizionalmente legata al ruolo di genere della donna che sta a casa con il marito che va fuori a guadagnare il salario, mentre qui rappresenta in prima battuta un’attività retribuita, in grado di offrire indipendenza economica, e in secondo luogo un modo di comunicare in codice tra le donne della storia, creando una sorellanza. Infatti, Inês e le altre saranno unite come ricami fatti dello stesso filo così come le Flores di passato e presente. Allo stesso modo, i colori del ricamo sono importanti, perché rappresentano il modo in cui il ruolo della donna è cambiato nel tempo: i ricami del XX secolo erano bianchi, poco vistosi e delicati, mentre quelli eseguiti nel 2010 da Alice sono chiassosi, colorati e vibranti, come lei e la sua rabbia per le ingiustizie che subisce. Il rapporto con le sue radici e le risposte sulla sua famiglia saranno importanti per riuscire a recuperare il rapporto sfilacciato con sua madre e ammorbidirsi un po’ nei suoi confronti, quindi, nonostante Alice si veda poco, ho amato il suo arco di formazione.

Nota di assoluto merito per lo stile: la voce narrante onnisciente fornisce spesso anticipazioni su come andranno le cose e, nonostante in alcuni casi si conosca già il tragico finale o il lieto fine, non si riesce a staccarsi dal libro.

La Maledizione della Famiglia Flores è uno dei libri in cui ho maggiormente visto me stessa e alcune delle mie tradizioni. So di essermi dilungata decisamente meno del solito, ma è solo perché questo libro non vuole strafare: ci sono quattro cose e si impegna a fare bene quelle. Se state cercando una lettura che scorra via in poco tempo, ma che tratti temi importanti senza essere pesante, questo è decisamente un romanzo che non potete farvi sfuggire.

martedì 10 gennaio 2023

Hell Bent

  • Titolo: Hell Bent - Portale per l’Inferno
  • Titolo originale: Hell Bent
  • Autrice: Leigh Bardugo
  • Traduttrice: Roberta Verde
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788804770428
  • Casa editrice: Mondadori

Trama


Trovare un portale per il mondo sotterraneo e rubare un'anima dall'inferno. Un piano semplice, se non fosse che le persone che compiono questo particolare viaggio raramente tornano indietro. Ma Galaxy "Alex" Stern è determinata a liberare Darlington, anche se questo le costerà il futuro alla Lethe e a Yale. Impossibilitate a tentare un salvataggio perché non possono accedere alle risorse della Nona Casa, Alex e Pamela Dawes, l'assistente di ricerca, mettono quindi insieme una squadra di dubbi alleati per salvare il "gentiluomo della Lethe". Insieme, dovranno navigare in un labirinto di testi arcani e artefatti bizzarri per scoprire i segreti più gelosamente custoditi dalla società, infrangendo ogni regola. Ma quando i membri della facoltà iniziano a morire, Alex sa che non si tratta di semplici incidenti. Qualcosa di letale è all'opera a New Haven e, se vuole sopravvivere, dovrà fare i conti con i fantasmi del suo passato e con l'oscurità insita nelle mura dell'università. Denso di storia e ricco di colpi di scena nello stile di Bardugo, Hell Bent dà vita a un mondo intricato e indimenticabile, pieno di magia, violenza e mostri fin troppo reali.


Recensione e commento

Hell Bent è un romanzo che attendevo con ansia e temevo di leggere al tempo stesso: dopo il passo falso dell’ultima dilogia del Grishaverse temevo che Bardugo si fosse persa e avesse finito gli argomenti da trattare con profondità. Sono contenta di essere stata smentita. Ho amato questo libro ed è all’altezza del primo volume, La Nona Casa.
Hell Bent è praticamente identico al suo predecessore per struttura narrativa, ma non dovendo presentare i
personaggi, né spiegare l’ambientazione o le regole del sistema magico, la storia parte direttamente dalle vicende e dai problemi da affrontare. La narrazione, quindi, è più veloce rispetto a La Nona casa, ma non a precipizio per i primi due terzi del romanzo, perché Bardugo sta comunque tirando le fila di una storia che mi ero illusa di aver compreso dove volesse andare a parare, per poi prendere una sterzata totalmente inaspettata e insospettabile, in cui i pezzi del puzzle vanno insieme solo nell’ultimo quarto, esattamente come nel primo libro. Dato che non ci sono troppe spiegazioni da dare, la voce narrante può concentrarsi sull’approfondimento psicologico dei personaggi, non sono Alex, ma anche Dawes (mi perdonerete, ma la mia maestra alle elementari mi ha insegnato che non si mette mai l’articolo davanti ai nomi propri e non voglio deluderla) e Turner. La prima si dimostra una donna chiusa in sé stessa ma con un nucleo morale intatto, pronta a combattere per le persone che ama e per i propri princìpi, forse con paura, ma mai facendosi vincere da essa. Turner è un personaggio che potrebbe esserci venuto un po’ a noia in La Nona Casa, mentre qui si dimostra ambizioso, con un codice etico personale non sempre socialmente accettabile, ma comunque anche lui sempre disposto ad andare fino all’inferno e ritorno per le persone che pensa se lo meritino. Questa è la chiave di lettura che personalmente ho dato al coniglio in copertina: un animale fragile, talmente pavido che muore di infarto per la paura e che rappresenta i nostri punti deboli, ma al tempo stesso anche ciò che sembra e in realtà non è, la superficie che ci viene mostrata. 

Alex, dal canto suo, è psicologicamente trasfigurata dopo il finale di La Nona Casa, ma non ha ancora fatto pace con tutto quello che è successo nella sua vita, ha ancora i fantasmi del passato che le fanno visita, non solo perché non li ha affrontati, ma soprattutto perché non li ha accettati e quindi seguitela in questa catabasi dentro sé stessa, con la certezza che Alex è quasi un’antieroina, una protagonista molto lontana da quelle a cui siamo abituate. Alex vuole sopravvivere a tutti i costi, nonostante le difficoltà, il che non sempre coincide con il desiderio di fare la cosa giusta. Non poteva, quindi, esserci titolo migliore di “hell bent”, che in gergo significa proprio andare avanti nonostante le difficoltà, le conseguenze avverse e le minacce. 

Per questi motivi ho trovato molto apprezzabili le citazioni della Divina Commedia, che non si trasformano mai in plagio e hanno, anzi, un tocco del tutto personale e un rinnovato significato che si presta a varie interpretazioni. L’inferno a cui Bardugo fa riferimento è al tempo stesso luogo fisico, mentale e metaforico. Ma se Dante dice che bisogna lasciare ogni speranza prima di entrarci, Alex e la sua compagnia ci entrano proprio perché non vogliono abbandonarla e ad essa si aggrappano con le unghie e con i denti. È un luogo che ha molte entrate, perché sono vari i modi per entrare all’inferno, sono tanti i modi per condannarsi. In quest’ottica, la loro catabasi è un viaggio dentro di sé che si avvicina quasi a quello del Mare senza Stelle. Non ci sono torture peggiori di quelle che ci autoinfliggiamo e qui arriva il nuovo tema trattato dall’autrice attraverso i morti e i demoni: il passato che ci perseguita e che torna a farci visita, quando cerchiamo di andare avanti senza affrontarlo davvero. Guardarci dentro, affrontare il nostro inferno personale può distruggerci, ma potrebbe anche farci uscire a riveder le stelle. I nostri traumi del passato e le nostre fragilità, quelle che ci rifiutiamo di avere e non ammettiamo nemmeno nella nostra testa, sono esattamente le azioni che quando vengono condivise possono mostrare chi siamo e rendere possibile agli altri amarci nonostante (o in virtù) di esse. Possono costituire il motivo per il quale qualcuno compie un viaggio fino all’inferno per noi, con la sicurezza che noi faremmo lo stesso al suo posto, perché quella persona ha visto la nostra parte peggiore e noi la sua e nonostante ciò non ne abbiamo paura; e così i ruoli di Dante, Virgilio e Beatrice possono sovrapporsi, mescolarsi o scambiarsi. L’inferno di Bardugo si contrappone a quello dantesco nel suo ruolo, dato che Alex e combriccola, come Dante, ci entrato ancora in vita, perché è un luogo da cui si può uscire, anche più volte e con enorme fatica, ed è per questo che la speranza non deve essere abbandonata. Eppure, nonostante questo importante messaggio di fondo, non c’è poesia, né idealizzazione, né solennità nel modo di raccontare questo viaggio ultraterreno e psicologico, non c’è altisonanza, ma solo realismo e cinismo, solo le solite passioni umane mostrate senza filtri dal loro angolo peggiore. 

Anche qui ci sono dei parallelismi e dei dualismi, quando la voce narrante ci parla dei luoghi, mentali o fisici, degni di essere chiamati casa, che possono anche essere pieni di cadaveri, fantasmi e ricordi e che possono anche andare a fuoco o meritare di farlo. E anche qui ci sono situazioni in cui si dovrebbe lasciare andare ma non ci si persuade a farlo. 

Presentissima è l’atmosfera dark academia: qui, rispetto ad altri libri di recente pubblicazione, la conoscenza è davvero un massacro. È sangue versato, più spesso a spese altrui che proprie, potere, sporcizia e corruzione. Bardugo ha fatto chiaramente tantissime ricerche storiche, letterarie e geografiche per poter scrivere Hell Bent e si vede, perché anche da un punto di vista stilistico questo è forse il libro migliore che abbia mai scritto, con una prosa degna del contenuto che racconta e con una maestria tale da risultare senza sforzo. Unica nota dolente, personalmente ho trovato la parte thriller troppo sullo sfondo e dimenticata, per quanto alla fine del romanzo ogni pezzo vada al suo posto e formi un quadro perfetto a posteriori mi sembra comunque un microscopico difetto. 

Portal fantasy, bangasian fantasy, urban fantasy, metaromanzo, romanzo psicologico, paranormal noir: Hell Bent è un libro che trascende il genere ed è all’altezza del primo capitolo della saga, composta da quattro libri, secondo Good Reads e tre secondo una diretta Instagram della stessa Bardugo. Il finale si presta perfettamente ad agganciarsi a un terzo libro che non vedo l’ora di leggere, sperando che la qualità rimanga immutata o vada in crescendo.

Quindi non posso che rassicurarvi su questa lettura: vale la pena di leggere Hell Bent e di avere aspettative alte, perché Bardugo è tornata.

mercoledì 4 gennaio 2023

Luce dalle altre Stelle

  • Titolo: Luce dalle altre Stelle
  • Titolo originale: Light from the uncommon stars
  • Autrice: Ryka Aoki
  • Traduttrice: Silvia Rosa
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 978-8804754251
  • Casa editrice: Mondadori
Trama

Shizuka Satomi, leggendaria insegnante di musica, ha fatto un patto con un demone: per salvarsi l'anima, deve spingere sette virtuosi del violino a vendere le loro. Finora ne ha convinti sei. L'ultima potrebbe essere Katrina Nguyen, ragazza transgender in fuga dotata di un talento tanto incolto quanto prodigioso. Quando Shizuka la sente suonare per la prima volta, tira un sospiro di sollievo e sente già le porte dell'Inferno che si allontanano da lei. Sì, Katrina è l'ultima allieva che le occorre per essere salva. Anche se, forse… Il fatto è che, in un negozio di ciambelle lungo una superstrada nella San Gabriel Valley, in California, Shizuka ha appena conosciuto Lan Tran, capitana di navi spaziali, rifugiata interstellare e madre di quattro figli. Shizuka non ha certo tempo da perdere con gli appuntamenti al caffè, c'è in gioco il destino della sua anima immortale! Ma lo sguardo dolce e l'irresistibile sorriso di Lan la costringono a ridefinire la sua lista di priorità. E poi, chissà, anche una cosa piccola come una ciambella calda potrebbe rivelarsi abbastanza potente da spezzare una maledizione...


Recensione e commento


Lo so cosa state pensando: avete appena finito di leggere la trama di Luce dalle altre Stelle e adesso credete che sia un mapazzone pieno zeppo di cose che non hanno niente a che fare l’una con l’altra. Fantascienza, fantasy, ciambelle, musica. Troppa roba!

Invece, sono molto felice di contraddirvi, perché la lettura di Luce dalle altre Stelle è scivolata via velocissima e semplice, al tempo stesso immersiva e meditativa. È un libro talmente strano e originale che dovete provare per capire se faccia al caso vostro, ma che sia così o no, di sicuro vi lascerà qualcosa. È una storia in cui nulla viene mai lasciato al caso, tutto significa sempre qualcosa, con varie stratificazioni di significato e sono sicura di non averle nemmeno colte tutte, perché se sarete voi a leggere Luce dalle altre Stelle potreste vedere cose diverse dalle mie e molte altre ancora. 

Tanto per cominciare, uno degli aspetti centrali di questo romanzo è la rappresentazione della transessualità, non edulcorata e mostrata spesso nelle sue parti peggiori: quelle della non accettazione da parte delle famiglie e da parte della comunità LGB stessa. T volutamente omessa, perché non tutte le persone che appartengono alla comunità queer sono necessariamente accoglienti verso tutt* e in Luce dalle altre Stelle si cerca di mostrare alcuni problemi intrinsechi alla comunità che spesso si finge di non vedere. Quella mostrata è la società in cui le persone transgender sono costrette a finire nel mondo della prostituzione o del sex working proprio a causa dello stigma sociale che le vede esclusivamente come fetish sessuali, mai come persone normali in grado di avere un lavoro qualsiasi. Per Katrina, il sex work è al tempo stesso l’unica strada che possa intraprendere, ma anche via di fuga dalla sua famiglia abusiva grazie all’indipendenza economica che riesce a ottenere in questo modo. Insomma, le difficoltà sociali delle persone transgender vengono trattate in modo realistico, incluse le circostante in cui la loro identità di genere viene utilizzata come token negli ambienti sociali conservatori, nei quali  la diversità viene usata solo per essere messa in vetrina e strumentalizzata, anche quando Katrina non vuole viene spersonalizzata per essere contrassegnata esclusivamente come “la trans”. Aggettivo che diventa un’etichetta da appiccicarle addosso e che la priva di ogni sua caratteristica e sembra impedire a chi la ascolta di cogliere veramente il suo lato artistico, la sua anima.

In effetti, il discorso sull’anima è quello per il quale ho trovato più significati. Prendete qualcosa di caldo e sedetevi, perché staremo qui per un po’. Uno dei vari tipi di anima di cui si parla è quello classicamente inteso come lo spirito che abita un corpo e che è la sola cosa di cui dovrebbe importare quando si parla di arte. Qualsiasi tipo di arte, da quella figurativa, alla musica, all’artigianato, è il cuore delle cose, ciò che veramente è importante di noi, al di là della nostra etnia, del genere e dell’orientamento, del nostro corpo in quanto carne e basta; eppure non è così, dato noi esseri umani continuiamo a concentrarci su cose di nessuna importanza, come l’aspetto fisico o retaggi culturali vecchi di millenni. Anche se, purtroppo, è lo stesso tipo di anima che bisogna vendere al diavolo per avere successo in certi ambiti, specialmente quello dello spettacolo, costellato di arrivismo e glamour, ma ormai scevro d’arte nella sua accezione più pura. Qui l’autrice ci mostra il dietro le quinte: non solo la fatica dell’esercizio costante, ma l’autolesionismo, gli stati d’ansia, la rivalità malsana, il giudizio altrui basato sull'estetica e non sulla performance. E in un momento “vendere l’anima al diavolo” diventa letterale.
Il violino stesso, per funzionare, ha bisogno di un’anima, che è letteralmente un pezzettino di legno collocato al suo interno e che rende unica la sua voce. Spostata di poco, l’anima cambia completamente il suono dello strumento e io mi sono emozionata ogni singola volta che l’autrice faceva dei parallelismi tra la musica e le persone, perché ho sentito tutto il suo amore e la sua passione per quello che voleva comunicare. Anche la parte fantascientifica del romanzo fornisce un’interpretazione sull’anima e pone un interrogativo con il quale le neuroscience sono alle prese: se si crea una IA a partire dalla mappatura cerebrale di una persona vera, allora quella è la sua anima, la sua coscienza? O serve necessariamente un corpo biologico da abitare perché una persona sia ritenuta tale? Le nuove frontiere tecnologiche potrebbero avere delle risposte interessanti.

Il rapporto che Katrina ha con il suo corpo avrà degli effetti anche in relazione con la musica e, in modo non così paradossale, dovrà imparare ad accettare anche le cose di sé che non le piacciono, se vorrà che la sua anima venga fuori come lei vuole dalla sua musica. E in tanti modi diversi, anche in questo senso, Ryka Aoki riesce a utilizzare un simbolo per dire qualcosa di molto profondo. Perché, esattamente come le persone, la musica non è sempre come ci si aspetta o come la si vuole, a volte ci sono note dove si vorrebbero silenzi e silenzi dove ci si aspetterebbe note, ma non ci si deve scusare della propria essenza, esattamente nello stesso modo in cui un pentagramma non si scusa della musica che ha scritta sopra. Sono i difetti, i pieni e i vuoti che ci rendono chi siamo. Lo stesso parallelismo si riesce a fare per quanto riguarda i violini, che hanno ognuno la propria voce e richiedono costanti cure e attenzioni, e le ciambelle dello Starrgate, che non hanno tanto successo quando escono da una catena di montaggio. Il segreto per farle buone, infatti, è che ci si metta cura, che siano prodotte seguendo dei tempi giusti per loro, che ciascuna sia leggermente diversa dall’altra. Ciò che rende speciale una ciambella è la piccola crosticina bruciata diversa dalla sua compagna di infornata, che magari ha qualche scaglietta di zucchero in più. 

Le ciambelle non sono l’unico cibo presente nel romanzo, anzi, se lo leggerete di sicuro vi verrà fame, dato che i momenti conviviali hanno spesso come filo conduttore proprio il cibo. Nello stesso modo in cui Alessandro Manzoni apre I Promessi Sposi descrivendo nel dettaglio il paesaggio per mostrare quanto sia bella l’Italia, Ryka Aoki racconta tantissimi cibi di diverse tradizioni asiatiche proprio con l’intento di mostrare quanto questo continente sia vasto e bellissimo, e di quanto le accuse dell’Occidente che vede gli asiatici come automi tutti uguali e privi di anima siano infondate. Eppure, il cibo non ha solo lo scopo di mostrare momenti di intimità tra le personagge: ci sono addirittura figure che non interverranno mai nella trama, ma che verranno spesso nominate perché donano i frutti del proprio orticello ai vicini di casa. Insomma, il cibo rappresenta un senso di appartenenza comunitario sia in senso tradizionale, sia in senso più ampio, legato ai rapporti di quieto vivere e buon vicinato. È un prendersi cura delle cose e delle persone: le ciambelle lievitano se ricevono cure e tempo, così come le persone. Noi non vediamo mai Katrina condividere un pasto con la sua famiglia biologica, che abusa di lei e la ripudia, ma ne condividerà tantissimi con la sua insegnante di violino e la sua domestica, Astrid, una donna adorabile e materna che passa gran parte dello spazio che le viene dedicato nel libro a preparare manicaretti deliziosi per una protagonista che non ha mai ricevuto amore. Lo fa spesso trasformando i prodotti che ha a sua volta ricevuto da altri, in un circolo virtuoso che spezza il ciclo di abusi e trasforma l’amore in amore più grande. 

Ci sono varie diramazioni per quanto riguarda la questione asiatica, perché come ho già accennato uno degli intenti dell’autrice è proprio quello di mostrare le persone asiatiche come esseri umani uguali a tutti gli altri. Sembrerà pleonastico dirlo, ma visto il periodo storico in cui stiamo vivendo probabilmente non lo è. L’Asia viene considerata come una sorta di fabbrica, sia di prodotti di bassa qualità, sia di persone di bassa qualità. Non è così: il tema viene trattato tramite un cast di protagoniste asiatiche, dato che Shizuka, l’insegnante di violino, è giapponese, sia attraverso la stessa Katrina, che ha origini cinesi. Lo stesso violino che suona è un prodotto cinese, prima snobbato proprio a causa della sua provenienza e del suo relativo basso costo, ma che poi si rivela un prodotto migliore di quanto si pensasse, bastava solo credere e scommettere un po’ di più su questo strumento così come su Katrina: entrambi reietti ed entrambi con un enorme potenziale. Però, la questione asiatica non finisce qui, perché entra in gioco un espediente molto classico della narrativa fantascientifica e horror, ovvero quello di utilizzare gli alieni come rappresentazione degli immigrati. In slang americano, infatti, la parola “alien” denota gli immigrati senza documenti (e chiamandoli così è molto facile allontanarli dall’idea di sé e spersonalizzarli). Qui, ancora una volta, si fa il passaggio del figurato al letterale, perché Aoki introduce una famiglia aliena, fuggita da una guerra intergalattica e rifugiatasi sulla terra che assume sembianze asiatiche. La xenofobia e il razzismo contro gli asiatici non sono certo cosa nuova negli Stati Uniti (o nel resto dell’Occidente, se è per questo) e ha radici che affondano sin nell’Ottocento: c’è un motivo se questa o altre autrici (clicca qui per I nostri Cuori perduti) hanno deciso di trattare il tema in questo preciso periodo storico, ricco di aggressioni xenofobe a causa del COVID-19 o altri problemi sociali per i quali si cerca un capro espiatorio. 

Potrebbe non sembrare necessario approfondire il macrotema della musica, ma lo è, perché è (ovviamente) centralissimo e appassionato.
L’autrice
Tanto per cominciare, l’autrice sa veramente di cosa sta parlando quando descrive lo strumento, le dinamiche, le melodie, la costruzione tecnica di un brano, la sua conoscenza è frutto di dimestichezza durata anni, non è una semplice parentesi che si apre dopo una breve ricerca su Wikipedia in cui si fa sfoggio di cultura. No. Lei sa cosa sta dicendo e ci tiene in modo viscerale, infatti le parti relative alla cura del violino, la sua storia, le lezioni per imparare a suonarlo, le discussioni sui pezzi trasudano amore per la materia e tanta dedizione. Ed è da qui che riesce a dare di più, perché con la musica come fil rouge ci spiega che, alla fine, la chiave di tutto è ascoltare davvero. La musica va ascoltata nel profondo, non va vissuta come un evento mondano a cui si va per sfoggiare un bell’abito appositamente comprato, così come va ascoltata Katrina quando dice di essere una donna o quando alza la sua voce di un paio di ottave per adattarla alla persona che vorrebbe essere; Shizuka stessa merita di essere ascoltata quando parla, profondamente ascoltata, non solo sentita per il piacevole timbro della sua voce. E anche qui torna il tema della genitorialità: le figlie non sono oggetti da mettere dentro uno stampo per farle della forma che si vuole, che obbediscano per forza, anche quando si chiede loro un sacrificio estremo. La chiave di tutto è ascoltare davvero la musica, anche quando è fatta di spigoli, irregolarità e vuoti nei posti sbagliati, un po’ come le persone che non rispettano le aspettative. E non per questo devono scusarsi, perché non c’è niente di male a essere sé stess*.

Alla fine la musica, in ogni sua forma, non necessariamente quella classica, perché non siamo qui per essere elitiste ed escludenti, ha anche (e oserei dire soprattutto) il ruolo di alleviare il dolore e portare a una risoluzione non violenta di un conflitto apparentemente irrisolvibile, anche perché Katrina stessa si salva grazie all’arte. Perché davvero la chiave di tutto era ascoltare.

So di aver scritto un commento interminabile, il che probabilmente farà sembrare Luce dalle altre Stelle un libro pretenzioso, pesante e intellettualoide, ma fidatevi, è stato incredibilmente semplice leggere questo romanzo. È una lettura che è scivolata via leggera, in cui le tematiche sono entrate l’una nell’altra con una naturalezza delicatissima. 

Non è detto che sia una lettura adatta a voi, vista proprio la sua particolarità e la struttura un po’ fuori dai canoni, ma provate comunque a dargli un’occasione e ascoltarlo davvero.

A Torch against the Night - Una Fiamma nella Notte

Titolo: A Torch against the Night - Una Fiamma nella Notte Titolo originale: A Torch against the Night Autrice: Sabaa Tahir Traduttrice: Fra...