mercoledì 31 maggio 2023

Il Muro di Tempeste

  • Titolo: Il Muro di Tempeste
  • Titolo originale: The Wall of Storms
  • Autore: Ken Liu
  • Traduttore: Andrea Cassini
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788804720324
  • Casa editrice: Mondadori
Trama 


Kuni Garu, ormai noto come l'Imperatore Ragin, governa il regno delle Isole di Dara, ma deve lottare per riuscire a rispondere alle esigenze del popolo e nello stesso tempo a mantenere la propria visione di progresso. Fino al giorno in cui un'armata del lontano popolo dei Lyucu invade le coste di Dara. Il panico diventa subito caos. Per difendere il suo ormai fragile regno dalla minaccia e al contempo preservare la pace costantemente messa a rischio dalle lotte tra fazioni rivali, l'imperatore Kuni si trova costretto a ricorrere all'aiuto delle uniche persone di cui si fida davvero: i suoi figli Timu, Phyro e Théra, ormai adulti. Fra sedizioni, traditori e false accuse, affronteranno i ribelli e gli invasori con la forza delle armi, della diplomazia e della geniale astuzia di Théra, pronti a lasciare il loro segno nella storia.


Recensione e commento

Ho atteso fin troppo a lungo prima di leggere il secondo capitolo della serie della Dinastia del Dente di Leone, ovvero il Muro di Tempeste. È criminale che questa serie, iniziata con La Grazia dei Re sia passata quasi sotto silenzio. 

Da un lato trovo comprensibile che non sia una lettura che intende abbracciare una larga fetta di pubblico, perché non si tratta di una storia che si legge per puro escapismo o per rilassarsi, dall’altra, però, la qualità oggettiva è così alta che mi sembra ingiusto che non abbia più visibilità.

Andando con ordine, Il Muro di Tempeste mantiene la tradizione iniziata dal primo libro di fare intervenire, almeno per parte della storia, le divinità del popolo di Dara, e in effetti era questo il motivo principale per il quale avevo definito La Grazia dei Re un po’ come un’Iliade raccontata in prosa (mamma mia, come passa il tempo e com’è cambiato il mio modo di scrivere!). Sebbene nel secondo romanzo gli dei intervengano meno, pur avendo un’enorme influenza nel momento in cui lo fanno, il libro si apre con un proemio con tanto di captatio benevolentia, il che già fa capire che il tono del romanzo sarà tendenzialmente aulico e sicuramente epico.

Rimanendo in tema di epica, un elemento che ho particolarmente apprezzato nella costruzione del worldbuilding è che Ken Liu abbia preso ispirazione da tantissime mitologie reali per caratterizzare questo o quel folklore, ma è in grado di mescolarle per rendere le varie culture uniche e non riconducibili a un unico popolo del regno primario. Mi spiego meglio: leggendo le tradizioni e le leggende dei popoli di Dara (e non sono) un occhio attento può vedere vari episodi storici o leggendari, ma mai appartenenti a una sola  mitologia, poiché per le stesse genti sono individuabili sia episodi di epica greca, sia di cicli nordici. Questo mix è così amalgamato che dà origine a qualcosa di totalmente nuovo e che può essere preso da sé, senza dover necessariamente andare a cercare il luogo da cui Liu ha preso ispirazione.

Vi starete chiedendo perché ho speso tante parole per specificare questo aspetto. Grazie per avermelo chiesto! Il paragrafo precedente ci torna particolarmente utile quando parliamo delle due fazioni che si contendono in questo libro. Per la prima metà, la trama si concentra tutta sulla fase di stasi che segue la caduta di un regime e dura fino a che il nuovo non ha ancora del tutto cementato il proprio potere. Quindi assistiamo a più di un decennio (come vi dicevo, non è una serie universalmente godibile, va presa con calma e con la consapevolezza che non succede tutto subito) in cui Kuni Garu deve fare i conti con i problemi del suo popolo, con le spinte di una fazione o dell’altra che vorrebbero accrescere il proprio potere. Insomma, si tratta di quasi quattrocento pagine di veri e propri problemi di governo, dilemmi morali sul potere e sul designare il successivo erede, ma soprattutto ci sono questioni sociali, trattate nell’arco dell’intera narrazione e che a volte ritornano, come ad esempio la questione di genere, il divario di possibilità lavorative e culturali tra i ceti, l’immigrazione, addirittura si parla di revisionismo storico e di attendibilità delle fonti, così come di innovazione contrapposta alla tradizione, insomma, le tematiche sono variegate e tutte trattate da ogni punto di vista possibile. Ken Liu è maestro di verosimiglianza, non esiste una sola persona overpowered nei suoi libri, chiunque può cadere in trappola o farsi ingannare e non esiste lieto fine perché la sola fine è la morte, non perché l’autore sia un sadico che si diverte a uccidere i nostri personaggi preferiti, ma semplicemente perché ci racconta tutte le loro storie dall’inizio alla fine, senza cristllizzare il racconto al momento in cui le cose vanno bene. Eppure, apprezzo particolarmente che non ricorra mai allo shock factor: Liu non mostra mai violenza gratuita o scene esplicite se non sono strettamente funzionali alla narrazione, persino nelle scene di battaglia non si perde in dettagli morbosi. 

Ritornando a noi, nelle prime quattrocento pagine l’autore mi aveva illusa, facendomi credere che la storia andasse a parare in modi a me comprensibili e prevedibili, fino a che non è arrivato il colpo di scena che ha dato una sterzata del tutto inaspettata. Non voglio dirvi troppo per non fare spoiler, sebbene sia qualcosa di scritto anche in quarta di copertina, ma se all’inizio pensavo che si sarebbe trattato di un romano sugli intrighi di corte meravigliosamente scritto ma a conti fatti noioso, alla fine ho chiuso il libro con la consapevolezza che andrà tra i migliori dell’anno e forse tra i preferiti della mia vita. Perché Ken Liu mette in scena due fazioni nemiche tra le quali c’è simmetria, poiché sono ad armi pari ed entrambe pensano di avere ragione, che si considerano vicendevolmente barbare per i motivi più disparati. Nella serie della Dinastia del Dente di Leone è sempre questione di punto di vista, i personaggi sono grigi non nel senso che non si capisce se le loro azioni siano buone o cattive, ma nel senso che la loro moralità cambia a seconda di chi li sta osservando, per cui si potrebbe giudicare il loro operato come positivo o negativo in base al tipo di conseguenze che ricade su di sé. Alla fine le vittime diventano carnefici e i carnefici vittime, cosa che spesso costringe a fare i conti con le proprie azioni passate e valutarle in prospettiva. Ed è anche qui che risiede la genialità di Ken Liu, perché non solo ha creato un mondo fantastico in bilico tra il fantasy e la fantascienza in cui tutto a parte le divinità è spiegabile razionalmente, non solo ha creato dei personaggi estremamente credibili e tridimensionali, ma per mostrare la simmetria che esiste tra un popolo e l’altro usa l’espediente di cui ho parlato prima: quello di mescolare le mitologia, per cui la cultura dominante non si riferisce solo al tipo di mitologia ritenuta “superiore” nel mondo primario e quella dominata non si rifà solo a un ciclo di leggende ritenuto “minore”. Ci ho messo un po’, ma sono arrivata al punto, scusate, sono un po’ gasata.

Sempre in materia di verosimiglianza e di tridimensionalità psicologica, l’autore non mi ha delusa nemmeno per quanto riguarda gli archi di formazione delle eroine: ne esistono di vari tipi e una donna in Il Muro di Tempeste non ha solo la guerra come occasione di legittimazione sociale, sebbene anche quella sia un’opzione, ma esistono anche lo studio, la scienza, l’abilità nello scegliere la giusta fazione a cui allearsi o a cui dare supporto perché i piatti della bilancia pendano dalla parte desiderata. Anche in questo caso, buone e cattive si confondono e a seconda del punto di vista tutto diventa relativo, persino una guerrafondaia invasora può essere compresa e capita, persino ammirata quando cavalca un drago in battaglia pur essendo incinta. E in effetti sono pochissimi i libri di narrativa speculativa che mi è capitato di leggere in cui la figura della madre abbia tutto il peso, sia in positivo che in negativo, che ha in Il Muro di Tempeste. Non tutte le figure materne sono tenere, ma sicuramente c’è una rappresentazione variegata tra madri chioccia, madri un pochino castranti e machiavelliche disposte a tutto per far prendere il potere al proprio pargolo, ma anche figure più positive ed equilibrate. In questo senso, ancora una volta Ken Liu ha fatto i compiti, perché nella sua rappresentazione variegata dell’animo umano, mai sfocia nella banalizzazione o nella strumentalizzazione delle istanze di una minoranza: qualsiasi caratteristica di genere, orientamento o altro viene sempre trattata come intrinseca della persona, non come il solo particolare peculiare, per esempio è il caso della gamba menomata di Zomi che, pur creandole delle difficoltà oggettive, non la pone mai davanti a un limite e riesce a diventare una delle studiose più rinomate del continente; le sue idee sono così chiare e vivide che lei stessa sembra prendere vita dalle pagine, tanto che alla fine la sua gamba diventa solo una delle tante cose che sappiamo di lei. E non è sicuramente la sola ad essere così approfondita, perché nel popolo di Dara non mancano nemmeno le coppie omogenitoriali, o semplicemente omosessuali, a volte persino per motivi politici e l’autore è così bravo a rendere tutto organico e amalgamato che non dà mai, mai l’impressione di usare la loro rappresentazione come bandiera o specchietto per le allodole, anche perché, come ho scritto in apertura, questa serie non ha nessuna intenzione di accontentare una vasta fetta di pubblico. È questa la narrativa inclusiva che voglio vedere, senza personaggi macchiette o token, ma finalmente una storia raccontata in modo intelligente, organico e strutturato da parte di una persona che veramente sa dove mettere le mani per rinnovare un genere letterario che rischia di ristagnare.

E in effetti, anche nel campo della guerra Ken Liu risulta un innovatore, perché per quanto riesca a rendere verosimile il lungo percorso di ricerca e sviluppo per comprendere gli armamenti della fazione avversaria (diciamocelo, niente fa galoppare la scienza quanto una guerra imminente), anche qui non si tratta semplicemente di andare in battaglia e vedere chi stermina più persone, si tenta prima un accordo diplomatico e si cerca una soluzione non violenta, per quanto non sempre possibile. E anche in questo caso, l’autore affida spesso questa sfida dialettica alle donne del romanzo, anche se non tutte vi saranno simpatiche e non sempre darete loro ragione, perché nessuna di loro è un angelo del focolare. 

Così come in materia di ruoli di genere e archi di formazione, Ken Liu si dimostra maestro anche nella trattazione delle razze non umane nel fantasy: se da una parte abbiamo una lunga tradizione in cui nella narrativa fantastica le razze non umane erano perfettamente sacrificabili, per quanto dotate di coscienza o intelligenza equiparabili, non ci si faceva mai molti problemi a ucciderle e andare avanti con la storia senza troppi rimorsi. Ecco, questo è il punto in cui Ken Liu introduce il disequilibrio, perché una fazione ha ridotto in schiavitù i draghi e li costringe a combattere in guerra sotto coercizione, mentre l’altra potrebbe usufruire di un vantaggio tattico simile ma non lo fa, non perché sia migliore, ma perché in tutta onestà non ne ha la possibilità. Il problema della schiavitù delle razze viene problematicizzata all’interno del libro ed è uno dei momenti in cui si sente più empatia, assieme a quello in cui, quando si dà loro la possibilità di scegliere, spesso decidono di non voler entrare nelle questioni umane. Sono sicura che questo aspetto verrà ulteriormente approfondito nel prossimo volume, lo aspetto con trepidazione.

Come c’era da aspettarsi, ci saranno alcuni addii da dire, non saranno sempre facili, ma con il trascorrere dei decenni è normale che il vecchio faccia spazio al nuovo. È vero che sono ottocento pagine, ma potete avere la certezza che Ken Liu non chiude mai con il cliffhanger, perché esattamente come il primo libro, anche Il Muro di Tempeste è narrativamente concluso nei suoi tre atti.

Sono pochissime le serie che riescono a mantenere una qualità così alta che era già difficile da ottenere in partenza. Ken Liu è un grande autore che sa come si gestisce una trama, come si crea un cast interessante e come usare magnificamente la prosa. Sicuramente non è una lettura leggera, ma se siete in vena di una serie fuori dai canoni, ma sicuramente epica dovete iniziate questa serie.


martedì 23 maggio 2023

Fable

 Ciao, fiorellini! Bando alle ciance, ringrazio, come al solito, la mia amica Franci per aver organizzato e l’editore per avermi dato l’opportunità di leggere in anteprima questo romanzo. 

  • Titolo: Fable
  • Titolo originale: Fable
  • Autrice: Adrienne Young
  • Traduttrice: Maria Concetta Scotto di Santillo
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788804769798
  • Casa editrice: Mondadori 

Trama

Figlia del più potente trafficante dello Stretto, la giovane Fable ha conosciuto un solo luogo che possa chiamare "casa": una nave ormai colata a picco. Quattro anni prima ha visto la madre annegare durante una terribile tempesta; il giorno seguente il padre l'ha abbandonata su un'isola covo di furfanti. Per sopravvivere Fable ha dovuto imparare a badare a se stessa, senza fidarsi di nessuno e contando solo su ciò che sua madre le ha insegnato. A tenerla viva è il desiderio di lasciare l'isola, ritrovare il padre e rivendicare il proprio posto al suo fianco. Ad aiutarla nell'intento c'è West, un giovane mercante. Fable però si accorge presto che durante la sua permanenza sull'isola i nemici del padre e i rischi connessi alla sua attività si sono moltiplicati; e, come se non bastasse, West non è chi dice di essere. Ma la ragazza non ha scelta: se vuole rimanere viva, dovrà lottare insieme a lui contro pericoli ben peggiori degli uragani che flagellano lo Stretto.


Recensione e commento

Mi capita raramente di rimanere a corto di parole, perché nel bene e nel male penso che qualsiasi libro, bello o brutto che sia, difficilmente può essere riassunto in poche parole nei suoi pregi e difetti.

Ecco, Fable è talmente insignificante da essere riuscito a smentirmi. Non so veramente cosa dire perché questo romanzo è talmente mediocre, scritto male e insipiente della sua esistenza da avermi lasciata senza parole. Mi viene da dire soltanto “molto rumore per nulla”. 

Io così per l’intera durata del libro

In Fable la trama non è solo trita, ma porta il concetto di prevedibilità a un livello da professionisti e in più la protagonista, colei che ci sta raccontando la storia, cela molti dettagli “importanti” ma non perché ci troviamo davanti a una narratrice volutamente inaffidabile che filtra la realtà attraverso la sua percezione e decide di mentirci al fine di farci parteggiare per lei e magari costruire un colpo di scena, ma proprio perché cambia alcune cose in corso d’opera perché non le ha adeguatamente introdotte in precedenza, rendendole impossibili da intuire. Una di queste è l’immancabile love story, che nasce di punto in bianco senza un motivo, senza un indizio, anche se la protagonista ci dice, quando succede, che era da tanto che si era accorta di certe avvisaglie, salvo il fatt che a noi non le ha mai comunicate mentre accadevano.

La scrittura scadente non è denotata solo dalle ciò che non dice, ma anche da quelle che racconta, perché esiste un enorme disequilibrio tra ciò che non viene mostrato e ciò che invece viene mostrato troppo. Non sappiamo della storiella d’amore finché non ci sbattiamo la faccia, ma vengono dedicate pagine su pagine all’interpretazione di carte e mappe di cui ci interessa fino a un certo punto, così come tutta la prima parte del romanzo è una profusione di termini nautici un po’ buttati a caso che tuttavia non aiutano a entrare veramente nell’atmosfera marinaresca perché talmente tecnici da rendere difficile sentire l’aria di mare sul viso.

Neanche a dirlo, la protagonista è il classico stereotipo delle eroine ya, vista una viste tutte, e alle solite ha delle motivazioni che la spingono all’azione francamente incomprensibili: il padre che la abbandona e la maltratta e che lei va comunque a cercare perché sì. Non lo so, raga, questo libro non ha nessun motivo di esistere, né per quanto riguarda la trama, né per i personaggi inesistenti e, neanche a dirlo, non esiste nemmeno un messaggio di fondo che possa salvarlo in calcio d’angolo.

Rispetto alla profusione di parole che dedico in genere alle recensioni, immagino che già questo faccia capire quanto poco ci sia da dire in merito a Fable, un libro che non lascia nulla, trito e ritrito e che non può nemmeno essere considerato carino nel suo essere disimpegnato perché totalmente inconsistente. 



sabato 20 maggio 2023

The Prison Healer

  • Titolo: The Prison Healer
  • Titolo originale: The Prison Healer
  • Autrice: Lynette Noni
  • Traduttrice: Angela Ricci
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788820071789
  • Casa editrice: Sperling&Kupfer
Trama


Kiva ha diciassette anni e ormai da tempo ricopre il ruolo di guaritrice a Zalindov, una prigione letale in cui chiunque è sacrificabile, in qualsiasi momento. Un giorno, nella sua infermeria approda la Regina Ribelle, che è stata catturata ed è gravemente malata. A Kiva viene ordinato di tenerla in vita a ogni costo affinché possa sostenere il Giudizio degli Elementi, ovvero quattro prove quasi impossibili da superare per riottenere la libertà. Consapevole che la Regina Ribelle non è in grado di affrontarle, Kiva prende il suo posto, pur sapendo che nessuno, in realtà, è mai sopravvissuto. Mentre Zalindov è in fermento e pregusta morte e distruzione, a vegliare su Kiva e ad aiutarla interviene un nuovo, misterioso detenuto, che piano piano si conquista un posto speciale nel suo cuore.

Recensione e commento

Avevo proprio bisogno di una lettura di questo genere in questo periodo! Dopo tanta mediocrità, finalmente è arrivato un libro che non sarà un capolavoro, e siamo d’accordo, ma che sa intrattenere e fare bene il suo lavoro.

Ma andando con ordine: The Prison Healer ha delle fondamenta abbastanza solide da reggere la sua struttura. La scrittura è scorrevole e delinea una stria che per una lettrice forte non è originalissima, ma che non presenta buchi e resta ben tirata e tesa fino alla fine, mantenendo sempre la coerenza. 

Un punto a favore è sicuramente la protagonista. Come saprete, se qualche volta passate sul blog, non è scontato che a me piacciano le protagoniste, ma Kiva è credibile per il contesto in cui si trova, con una psicologia ben delineata, verosimile e per fortuna per una volta abbiamo una ragazza sveglia che si muove all’interno della storia senza avere la necessità di aspettare costantemente che sia qualcun altro a salvarla. Mi ha ricordato la mia amata Katniss Everdeen e in effetti anche l’ambientazione, per quanto sia completamente diversa, richiama quella opprimente, triste e decadente della serie di Suzanne Collins per quanto riguarda l’atmosfera decadente, triste e opprimente. Kiva è una protagonista che riserverà numerose sorprese, positive per quanto mi riguarda, ma non tutte le lettrici che ho sentito sono state dello stesso avviso. Personalmente, credo che qualsiasi protagonista in grado di stupirmi, in questo panorama di ragazze intercambiabili, sia comunque degno di nota. 

Per le più romantiche: sì, c’è anche la love story, ma persino un paracarro come me non ha provato fastidio nel leggerla perché anche in questo caso, il punto di forza di questo libro è l’equilibrio, la morigerazione, il fatto che sia tutto ben dosato nei minimi dettagli e anche in questa situazione, Kiva mantiene la sua pragmaticità, senza perdere la ragione davanti al belloccio di turno.

Se siete alla ricerca di un libro piacevole, ben dosato e in grado di stupirvi, non dovete fare altro che tuffarvi nei misteri e negli intrighi della prigione di Zalindov e seguire le avventure della guaritrice Kiva.

venerdì 19 maggio 2023

Sole Nero

Buongiorno, bellezze! Prendete qualcosa di caldo o qualcosa da sgranocchiare, perché, dopo aver ringraziato Francesca per aver organizzato questo evento e l’editore per avermi consentito di leggere il romanzo in anteprima, partiamo subito con il massacro. Carthago delenda est.


  • Titolo: Sole Nero
  • Titolo originale: Black Sun
  • Autrice: Rebecca Roanhorse
  • Traduttore: Andrea Cassini
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788804749196
  • Casa editrice: Mondadori 
Trama


Nella città sacra di Tova, il solstizio d'inverno è un momento di celebrazioni e rinnovamento, ma quest'anno coincide con un'eclissi di sole, un evento astronomico raro che i Sacerdoti del Sole vedono come una rottura dell'equilibrio globale. Nel frattempo, una nave proveniente da una città lontana sta per arrivare a Tova proprio per il solstizio. La sua capitana, Xiala, una Teek caduta in disgrazia, ha il dono di un Canto in grado di placare le acque e sconvolgere le menti; trasporta un passeggero, Serapio, un giovane cieco, sfregiato, totalmente innocuo. Ma Xiala sa fin troppo bene che, di solito, quando un uomo è definito "innocuo", finisce per diventare il malvagio della storia. Animata da una serie di personaggi indimenticabili, l'avventura narrata da Rebecca Roanhorse esplora temi come la decadenza del potere, il peso della storia, la lotta degli individui contro le convenzioni sociali e le ferite del loro passato.


Recensione e commento

Nel caso di questo libro nello specifico partivo molto prevenuta, nel senso che ero già praticamente sicura che mi sarebbe piaciuto: pensavo di trovarmi davanti a un titolo dalla indiscutibile qualità oggettiva, qualcosa che andasse oltre il gusto personale. Insomma, un fantasy ambiento sullo sfondo delle civiltà precolombiane! Perché nessuno ci ha pensato prima? Ebbene, sono stata smentita.

Mi sono accorta sin dal prologo che invece non mi lo avrei apprezzato e quando è successo ho cominciato a scavare, a cercare notizie sull’autrice, sul suo background, sulla narrativa nativa americana e la sua struttura, che potrebbe differire da quella occidentale, e ho letto articoli e interviste su di lei, finché non mi sono resa conto di una cosa: stavo facendo parlare la sua storia personale molto più di quella raccontata nel romanzo, perché in qualche modo non mi sentivo in grado di criticare una storia che ha come obiettivo quello di fare rappresentazione. Insomma, pensavo di non essere nessuno per muovere delle critiche a una storia che rappresenta una comunità di cui non faccio parte e stavo mettendo troppe mani avanti. Non sono nessuno per assegnare medaglie di autenticità. Ma poi ho continuato a leggere ed è apparso chiaro che Sole Nero è un libro scritto da un’occidentale per un pubblico occidentale, con tutto il corollario che ciò comporta. E allora mi sono detta “delenda Carthago”.

Tanto per cominciare, lo stile di scrittura è tremendo, ripetitivo, ridondante, prosaico. Ci sono parole ripetute all’interno della stessa frase e i dialoghi sono surreali, scolastici al punto da sembrare scritti da una ragazzina delle medie: persone nate nello stesso luogo, appartenenti allo stesso ceto sociale e che svolgono lo stesso mestiere che si spiegano a vicenda cosa sia e come si svolga una festività della loro città. È come se voi foste di Napoli e venissero a spiegarvi il culto di San Gennaro: la risposta non sarebbe un conciliante “sì, è una festa molto sentita, infatti *insert another spiegone prolisso here*” ma un più verosimile “Ma come ti permetti? Guarda che lo so benissimo, idiota, perché me lo stai spiegando?” (voglio un premio per non aver scritto parolacce). L’autrice cerca in più occasioni di far vivere le vicende e l’ambientazione in modo immersivo, ma ci riesce raramente, al punto da diventare frustrante in determinate occasioni; infatti sono numerose i momenti concitati in cui sta accadendo qualcosa che tiene con il fiato sospeso e la voce narrante invece di venire al sodo, preferisce aprire una digressione sulle cose più inutili. Esempio: la scena in cui arriva un messaggero recante delle notizie urgentissime della massima importanza viene interrotta nel suo svolgimento per spiegare da quali materiali sia composta la carta su cui è scritto il messaggio, quale sia il processo produttivo, come si chiama l’artigiano (sono seria, non è un’iperbole, succede veramente). E in tutte queste circostanze io posseduta da Giovanni Storti in Chiedimi se sono felice perché ogni volta urlavo 
“MA COSA ME NE FREGA DI COSA AVETE BEVUTO! PIUTTOSTO, DIMMI COSA T’HA DETTO!”. La cosa che trovo assurda è che questo tipo di digressioni è costante e ricorrente, ma non aggiunge nulla, e nonostante l’ ampio spazio che l’autrice si prende per questioni marginali riesce a mancare numerose occasioni narrative interessanti, ci sono diversi passaggi in cui sarebbe stato interessante vedere un flashback che invece non arriva, il che ha contribuito nel totale a una mancata tridimensionalità delle psicologie, perché troppi eventi rilevanti vengono liquidati in una riga o poco più, anche se magari sono durati anni e sono stati segnanti. Il worldbuilding non è neanche male, ma è troppo superficiale, tanto da risultare appena accennato e serve troppo tempo per capire che non si tratta di un’unica amalgama tradizionale, ma di varie culture anche lontane tra di loro. Mi va benissimo che non sia stato spiegato con un’ennesima lunga digressione, ma non è stato nemmeno mostrato e tra le altre cose noi sappiamo che si tratta di un’ambientazione ispirata al periodo precolombiano solo perché ci è stato detto fuori dal testo, non si percepisce attraverso la storia, i luoghi o le tradizioni. Allo stesso modo la magia, che probabilmente negli intenti dell’autrice doveva essere sottesa, risulta invece come se saltasse fuori solo quando fa comodo, salvo poi non essere minimamente presente nei nodi di trama importanti dove si supponeva dovesse succedere qualcosa, finale incluso. Anche qui, le regole alcune volte sono appena accennate ed esclusivamente quando è conveniente. I personaggi secondari vengono gestiti esattamente alla stessa maniera, cioè entrano in scena quando c’è un problema dei principali da risolvere per poi uscirne quando hanno assolto il loro compito. Il tutto, nel complesso, risulta poco verosimile e crea dei personaggi macchietta, oltre a dare l’impressione che l’autrice non avesse chiarissima la direzione da prendere e che non sia stata aiutata dal suo team.

Ma ciò che è più disastroso, a mio avviso, è proprio la rappresentazione. Sia chiaro, io auspico libri che contengano finalmente storie che possano essere universali, parlare al cuore di chiunque e che il bacino di chi può essere protagonista vada via via ampliandosi, ma non mi basta che respiri: non bastano le buone intenzioni per fare un buon libro, perché anche la strada per l’inferno ne è lastricata. Difatti, sin dalle prime pagine veniamo a conoscenza di una delle voci protagoniste (ci saranno quattro pov, uno dei quali spuntato fuori di punto in bianco a metà romanzo) e sin dall’inizio ci imbattiamo in cliché sulla rappresentazione, perché la bisessualità è ancora una volta sinonimo di condotta libertina e dissoluta, per quanto, alla fine della storia, la persona in questione sia stata quella che ho sentito di conoscere meglio, forse perché le è stato dedicato più spazio. Una rappresentazione che stavo trovando più convincente, invece, è quella di una persona agender, che non viene mai descritta fisicamente per non darci modo di aggiungere dei connotati specifici e incasellarla in un genere binario, finché anche qui non mi sono resa conto che l’autrice ha fatto coincidere l’ambivalenza di genere con l’ambiguità morale. In ogni singola questione di genere tirata in ballo ho sentito tantissima retorica: ora, noi sappiamo, perché lo dice anche l’autrice nelle note alla fine, che nelle civiltà precolombiane esistevano persone non-binary, così come l’orientamento era vissuto con enorme naturalezza. Allora non capisco come mai in questo mondo secondario, che dichiaratamente ricalca queste tradizioni e in cui agiscono solo persone nate e cresciute in questa cultura, perché loro stesse abbiano bisogno di tante spiegazioni in merito. Se la risposta è che il messaggio era per chi legge e non per chi agisce nella trama, allora mi viene da dire che ci troviamo davanti a un esempio di scrittura mediocre, perché in un libro che viene venduto come adult non solo si presuppone di avere a che fare con un pubblico cresciuto e già con le proprie idee, ma soprattutto non è giusto imboccare tanto chi legge nell’interpretazione della storia affibbiando etichette che poi sono le uniche a caratterizzare il personaggio: nessuno nella vita è solo una cosa, siamo l’insieme di tanti fattori, ma qui, come spesso accade, abbiamo “la bisessuale”, “il disabile”, “l’agender”, come nelle barzellette. Un modo di scrivere così didascalico non fa altro che marginalizzare ulteriormente, invece di normalizzare. Tutti gli avvenimenti potevano tranquillamente essere mostrati e lasciarli all’interpretazione personale, invece l’autrice, con una condiscendenza spesso malriposta, preferisce fare la spiegazione in una trama che già di per sé è scarna e banale, degna di qualsiasi young adult di questi tempi. Ripeto, io capisco le buone intenzioni, ma non bastano.

Come immagino Serapio 
(Se non avete visto Robin Hood in calzamaglia
di Mel Brooks disonore su di voi e sulla
vostra mucca)
Concedetemi di sdrammatizzare

Arriviamo alle note veramente dolenti (sì, Sole Nero è una spirale discendente). La questione che mi sta più a cuore è quella della rappresentazione della disabilità, di cui ho già parlato anche in altre recensioni, perché i veri disastri sono qui. Non soltanto si ricade nei soliti trope tipici della narrativa fantastica occidentale degli ultimi anni, ma si ricalca addirittura tutta un’impalcatura che regge una serie di preconcetti che sono precisamente quelli che l’autrice aveva l’obiettivo di smontare. Tanto per cominciare, non ho apprezzato lo shock factor gratuito in molti punti, dove la deformità fisica viene usata per disgustare o per impressionare, queste cose lasciamole a Scary Movie, che è meglio. Inoltre, ancora una volta, la disabilità viene usata per inserire il “mito del supercrip”, il “superstorpio” che ha capacità straordinarie per compensare quello che “gli manca”. La disabilità viene usata come scusa per far “skillare” il personaggio, non è una semplice caratteristica intrinseca, ma la cosa sulla quale la sua intera identità è basata e che viene usata per farlo sembrare più figo “nonostante la sua disabilità”, che è esattamente il pensiero abilista per eccellenza. Un po’ come se comportarsi da normodotati, o addirittura avere i superpoteri, fosse solo questione di allenamento, in puro stile retorico americano di “se vuoi puoi”. Insomma, al caro Serapio con la cecità danno in dotazione dei recettori nasali in più e diventa in grado di fiutare le emozioni, come i cani da lavoro che riescono a  prevenire gli attacchi epilettici. Vi fermo subito, so cosa state pensando: no non è un super potere dato dal sistema magico, non è qualcosa che viene giustificato in modo credibile attraverso la componente fantastica, ma con l’addestramento e con il semplice essere cieco, come se la mancanza della vista aprisse il terzo occhio e uno poi diventasse un supereroe. Ma non finisce qui, perché il nostro Serapio è cieco solo quando ne ha voglia, poiché grazie a una potente droga riesce ad abbandonare il suo corpo e prendere in prestito quello altrui e quindi usare la vista. A posto, funziona a intermittenza, come le lucine di Natale, oltre al fatto che ricade nel solito cliché narrativo di moltissime storie che parlando di disabilità in cui la persona in questione ha come obiettivo dell’esistenza quello di fare sesso una sola volta nella vita per poi sacrificarsi. Nella rappresentazione di Serapio le uniche cose che funzionano sono che non è un personaggio infantilizzato o compatito e nelle scene in cui vediamo all’opera la sua cecità si vede che l’autrice ha effettivamente fatto delle ricerche e parlato con persone che ne hanno davvero avuto esperienza, ma per il resto è un totale disastro. 

Non è così che si fa rappresentazione e io sono stufa marcia di storie mediocri che vengono scritte solo perché parlare di categorie marginalizzate fa vendere anche quando vengono ritratte nel modo sbagliato. Sono arcistufa e lo trovo immorale. Non serve assolutamente a niente inserire personaggi fuori dai canoni a cui ci hanno abituato se non viene messo in discussione lo schema narrativo in cui vengono inseriti. Non ci può essere davvero l’inclusività di cui ci si riempie tanto la bocca se alla fine la storia in questione si riduce comunque a un massacro frutto della narrazione “noi” contro “loro”, basata, tra l’altro, su premesse traballanti e con moventi narrativi che non sempre stanno in piedi da soli. E in verità è questo il problema di fondo da cui scaturiscono tutti gli altri: è impossibile scrivere il libro perfetto e quando si parla di certi temi esistono sempre tantissime correnti di pensiero, sarebbe comunque stato molto difficile scrivere senza neanche un difetto, o presunto tale, che aprisse un dibattito, ma ci sta benissimo ed è normale, glielo avrei anche nel complesso perdonato se solo il problema non fosse proprio alla base. Se Sole Nero fosse stato ambientato nella Parigi degli anni Venti, l’intreccio non sarebbe cambiato minimamente, la storia è sentita e risentita, i trope sono gli stessi di ogni young adult in circolazione e l’inclusività è solo di facciata. Ora, questo non è solo un errore, un difetto sul quale si può divergere o soprassedere perché le esperienze non sono universali e si può avere opinioni diverse, ma proprio un presupposto sbagliato, per cui l’intera impalcatura non può reggere, proprio perché la storia complessiva si basa su presupposti di non inclusività: non serve a niente inserire un personaggio disabile in una cornice abilista che però viene fatta passare come aperta e paritaria. Non basta mettere una schwa a caso per farmi contenta, se poi vengo messa davanti a inclusività da social network.

Tra l’altro, Serapio deve sacrificarsi perché sua mamma gli ha detto così. E basta, capito? Nessuno spirito critico da parte sua e a noi deve andare bene la sua disabilità romanticizzata e la sua infanzia in cui è stato “educato” a bastonate perché è così che si addestrano gli eroi. Un movente narrativo di tutto rispetto, davvero! Nelle note, l’autrice afferma di essersi informata tramite saggistica e interviste a persone cieche e si assume la responsabilità di qualsiasi inesattezza abbia riportato nel libro. Ciò le fa onore, ma non mi rende più clemente, proprio perché si vede che nelle scene in cui il personaggio mostra cosa significhi essere cieco durante un’azione sa di cosa sta parlando, ma evidentemente non ha interpellato nessuno che la aiutasse a mettere in discussione l’intera impalcatura narrativa su cui sono fondate le retoriche che circondano i temi sociali che tratta. E questa non è una cosa da poco, perché  l’intento di Sole Nero era quello di fare rappresentazione e poiché l’intreccio è abbastanza mediocre e il colpo di scena finale telefona per dire che sta arrivando, almeno quella doveva essere, se non perfetta, quantomeno mostrarci dei personaggi credibili a cui affezionarci. Invece quando si chiude il romanzo si ha la sensazione di non aver conosciuto davvero nessuno di loro.

In sostanza, non ho trovato un motivo davvero valido per il quale valga la pena leggere Sole Nero, sono molto delusa, mi sento derubata del mio tempo e nutro anche un certo grado di indignazione. Ci meritiamo storie di gran lunga migliori, io me le merito e ve le meritate voi, anche se nessuno ve lo dice abbastanza. Non ci basta avere il contentino.

martedì 16 maggio 2023

il Trono di Gelsomino

 Ciao, bellezze! La recensione di oggi riguarda un romanzo che ho atteso a lungo e che ho potuto leggere grazie all’evento organizzato dalla mia amica Franci e alla casa editrice che mi ha gentilmente fatto omaggio del libro. Bando alle ciance e ciance alle bande, cominciamo. 


  • Titolo: Il Trono di Gelsomino
  • Titolo originale: The Jasmine Throne
  • Autrice: Tasha Suri
  • Traduttore: Francesco Vitellini
  • Codice ISBN: 9788834743393
  • Casa editrice: Fanucci

Trama


Esiliata dal dispotico fratello, la principessa Malini passa le giornate tra le mura di un tempio in cui è tenuta prigioniera, sognando la sua vendetta. La giovane Priya, invece, tiene nascosta la sua identità e lavora come serva nella dimora dell’odiato reggente. Ma quando Priya viene assegnata alle stanze di Malini e quando quest’ultima scopre la vera natura dell’altra, i loro destini si intrecciano irrimediabilmente. Una principessa che vuole rubare il trono al fratello e una serva in possesso di una magia proibita che cerca disperatamente di salvare la propria famiglia. Insieme, metteranno a ferro e fuoco l’impero. The Jasmine Throne – Il trono di gelsomino dà inizio a una trilogia fantasy ambientata in un mondo ispirato alla storia e alle leggende indiane, in cui una principessa spietata e una potente sacerdotessa diventano delle improbabili alleate “in questo racconto ferocemente e sfacciatamente femminista” (S.A. Chakraborty).


Recensione e commento 

Fanart dal web

Aspettavo da più di un anno la pubblicazione italiana del primo romanzo della trilogia di Tasha Suri: L’Impero di Sabbia mi era particolarmente piaciuto, tanto da finire tra i migliori libri letti lo scorso anno, mi aveva conquistata per la sua atmosfera immersiva, ma soprattutto per la protagonista Mehr, che sentivo particolarmente affine a me (o a come vorrei essere).

Per cui è con un po’ di amaro in bocca che mi ritrovo a scrivere una recensione tendenzialmente tiepida per Il Trono di Gelsomino, che ha tanta carne al fuoco, con alcune cose fatte bene, altre molto meno.

Tanto per cominciare, partiamo con la struttura: cinquecentoventi pagine di cui troppe non necessarie. Nonostante io ami le ambientazioni che l’autrice è capace di creare e sebbene per me la lentezza in un romanzo sia un valore aggiunto che porta ad apprezzarlo a piccole dosi, in questo caso specifico mi sono ritrovata a pensare che fino a pagina trecento fosse confusionario e indeciso. Nello specifico, Il Trono di Gelsomino è un romanzo a focalizzazione variabile perché alterna i punti di vista dei personaggi, ma non tutti i capitoli sono funzionali. Infatti, Tasha Suri fa qualcosa che personalmente detesto perché denota pigrizia nella scrittura: fa saltare fuori un nuovo pov una tantum di punto in bianco a metà della storia e magari il personaggio appena introdotto muore in quello stesso capitolo. Avrebbe funzionato molto meglio farci arrivare determinate informazioni tramite lo sguardo delle principali oppure far accadere qualcosa fuori scena e raccontarlo successivamente in seconda o terza persona, senza frammentare la narrazione e le psicologie. Questo difetto era già presente nel precedente romanzo dell’autrice, ma qui appare addirittura esasperato e peggiorato, invece che limato fino a scomparire ed è il principale responsabile della sensazione di confusione che ho avuto fino a pagina trecento, momento nel quale ho dovuto fermarmi, mettere da parte il romanzo per due settimane e riprenderlo solo in un secondo momento, perché stavo rischiando un blocco del lettore che non potevo permettermi. E ripeto, il problema non è la lentezza in sé, che spesso serve a far crescere le dinamiche e prendersi il proprio tempo, è stato proprio un susseguirsi di dinamiche poco efficienti.

Salvo il libro più che altro per le ultime duecento pagine, che sono la parte che ha funzionato meglio sia per ritmo che per costruzione, anche perché naturalmente è quella in cui c’è una maggiore concentrazione di azione, oltre che di scene simboliche e catartiche. Inoltre, come forse è intuibile, vengono anche gettate le basi per il seguito, che leggerò sicuramente perché Tasha Suri merita un’altra occasione per stupirmi. 

Fanart dal web

Un altro elemento che ho trovato assai poco convincente è quello della storia d’amore saffica, perché che ci sia o non ci sia non fa molta differenza nella cifra totale del romanzo. Il Trono di Gelsomino è stato pubblicizzato come chissà quale storia a sfondo LGBTQI+, ma a conti fatti è qualcosa di così marginale che ho trovato non solo trascurabile, ma addirittura poco convincente. Personalmente non amo le storie d’amore smielate, quindi anche in questo caso il problema non è che manchino scene struggenti o occhioni dolci vari ed eventuali, quanto il fatto che il sentimento nasca quasi di punto in bianco perché, nelle intenzioni, funzionale sul lungo termine alla trama. La natura del rapporto delle due donne in questione avrebbe potuto essere di qualsiasi tipo e non sarebbe cambiato granché. Insomma, manca un po’ di mordente e anche in questo caso un po’ di convinzione in più.

Non è tutto da buttare, naturalmente, perché l’idea di fondo è ambiziosa e interessante, sicuramente originale e apprezzo molto che, anche in questo caso come nel romanzo precedente, Tasha Suri non dia troppe spiegazioni in merito alla cultura che sta raccontando, non si fa carico di educarci, ma lascia a noi il compito di andare a cercare ciò che non conosciamo, il che potrebbe essere un difetto se cercate una lettura leggera e non troppo impegnativa, ma senza dubbio un pregio se volete una narrazione che non si dilunghi in spiegazioni (a me ormai viene l’orticaria con gli spiegoni). Anche il sistema magico, basato su varie religioni, viene scoperto e raccontato poco alla volta. Non voglio spiegarvi niente, perché non sono nella posizione di farlo, ma questa è una cosa che invece è riuscita molto bene nel connubio tipico asiatico privo di una religione confessionale che riesce a mescolare varie fedi, che riescono a coesistere ed essere tutte vere contemporaneamente, al culto della madre terra che dà la vita, ma che può anche uccidere e per cui si uccide. Aria, acqua, terra, fuoco, profezie e malattie magiche sono tutti elementi che possiamo ritrovare, ma reinventati e totalmente imprevedibili, fuori dai canoni proprio perché pensati per una cultura diversa. 

L’autrice
I personaggi sono croce e delizia, perché presentano sia grossi pregi, sia enormi difetti. Da un lato, non tutte le psicologie sono adeguatamente approfondite, alla fine del romanzo avremo la sensazione di conoscere alcune persone di più, altre meno, problema a cui si poteva ovviare togliendo i pov inutili e mostrando gli eventi solo attraverso lo sguardo di chi era importante per la storia, ma su questo mi sono già dilungata; al tempo stesso, però, la trama è mandata avanti dalle ultime, dalle minoranze, da chi in genere sta sul retroscena e da lì riesce a tirare le fila, senza farsi vedere. È davvero apprezzabile che ci siano serve, principesse, nobildonne, sagge, guerrieri, ribelli, saggi e monaci a mostrarci il loro punto di vista, ma che invece sia del tutto marginale chi crede di detenere totalmente il potere temporale, come imperatori, re, nobili. È una storia mandata avanti da chi in genere non ha voce e pertanto ha imparato a sfruttare a proprio vantaggio la sua invisibilità, anche indossando maschere, reali o metaforiche che siano, e giocando sugli stereotipi che si vedono appiccicati addosso. Tra l’altro, in Il Trono di Gelsomino, una delle protagoniste più attive è Bhumika, una nobildonna incinta per la totalità del romanzo e che sarà colei che prenderà in mano la situazione in numerosi punti della storia, grazie alla sua rete di benevolenza costruita con pazienza. Bhumika mi ha stupita più di tutte, più della principessa Malini, che mi è in più occasioni rimasta indifferente, o della serva Priya, perché le donne incinte, o madri, o qualcosa di simile, che sono effettivamente protagoniste attive, e non solo mezzo per partorire prescelti e poi morire, nei romanzi fantasy posso contarle sulle dita di una mano. Bhumika è decisamente la mia preferita, nel caso non si fosse capito, è pragmatica e machiavellica, mentre si finge agnello innocuo per la maggior parte del tempo. 

Nel complesso, non mi sento di bocciare Il Trono di Gelsomino, ma resto abbastanza tiepida perché sono sicura che Tasha Suri poteva fare di più, dato che lo ha già fatto. Resto comunque curiosa di leggere il seguito, nella speranza che alcuni difetti vengano corretti e che non soffra della sindrome del libro di mezzo. Non mi resta che aspettare.

mercoledì 10 maggio 2023

La Bottiglia dei Desideri

  • Titolo: La Bottiglia dei Desideri
  • Titolo originale: The Lucky Bottle
  • Autore: Chris Wormell
  • Illustratore: Chris Wormell
  • Traduttrice: Eleonora Dorenti
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788817178488
  • Casa editrice: Rizzoli
Trama


Se avessi dieci anni e mezzo, la tua nave affondasse e finissi su un'isola minuscola, completamente solo, potresti credere di essere davvero sfortunato. Soprattutto se tra la sabbia trovassi un teschio umano. Così infatti pensa Jack, a cui accade proprio questo. Ma le sue convinzioni cominciano a cambiare quando, sullo scoglio inospitale su cui lo hanno trascinato le onde, conosce Robinson, un omone dalla lunga barba nera che è naufragato lì molto tempo prima, insieme a mobili, attrezzi, una scorta di rum e un'intera biblioteca. In compagnia di Robinson sopravvivere sembra possibile, e persino non annoiarsi: Jack impara a pescare e raccogliere uova di gabbiano, ascolta con meraviglia i rocamboleschi racconti della vita di Robinson, e inizia a leggere e scrivere. Resistere alla nostalgia di casa, però, è davvero difficile, anche se hai un amico straordinario accanto a te. Jack riuscirà mai a fare ritorno dalla sua famiglia? Quel che è certo è che l'isola nasconde molti segreti e oscuri misteri e che, prima di affrontare l'immenso oceano per tornare a casa, Jack è destinato a scoperte incredibili. Mappe del tesoro, pirati spietati, pozioni magiche, messaggi in bottiglia e mostruose creature marine... un'avventura entusiasmante e piena di colpi di scena. Con le illustrazioni dell'autore. Età di lettura: da 8 anni.


Recensione e commento

Chris Wormell è un autore di cui avevo già letto Il Posto magico, un romanzo per ragazzi che mi aveva colpita per la sua delicatezza e la sua malinconia. Quindi, quando Rizzoli mi ha proposto la lettura di La Bottiglia dei Desideri sono andata abbastanza su sicuro.

Che libro, gente! Se già il primo libro di Wormell mi era piaciuto, posso dire che qui è persino migliorato, come se avesse messo il turbo. Apparentemente, la storia di un bambino naufrago su un’isola deserta che deve trovare un modo per tornare a casa potrebbe sembrare scontata e già scritta, invece sono rimasta totalmente incantata dalla fantasia sfrenata degli avvenimenti che si susseguono senza neanche un buco di trama e, nonostante siano costellati di magia e immaginazione, riescono comunque a svolgersi entro una ferrea cornice di verosimiglianza. Quando si parla di letteratura fantastica mi capita spesso di sentire delle giustificazioni per le cose che non tornano con “ma sì, è un fantasy”. Wormell non cerca mai scuse, tutto torna, tutto ha una spiegazione e come ho già detto riesce a inventare delle vicende che sono fuori da qualsiasi cosa io abbia mai letto prima, non tanto quando sono prese singolarmente, quanto nel momento in cui vengono messe tutte assieme in modo organico e funzionante, senza scossoni e con un ritmo serratissimo.

Con un romanzo che getta alcune premesse dall’incipit e poi porta verso tutt’altri lidi, non ci si poteva aspettare che i personaggi fossero canonici, infatti sia il protagonista che gli altri non sono facilmente incasellabili e ciascuno ha la propria storia che meriterebbe un libro a sé, inclusa la grande tartaruga dell’isola, che non intende essere una semplice comparsa, ma parte attiva della trama.

La narrazione di La Bottiglia dei Desideri mi ha ricordato le fiabe della buonanotte totalmente inventate da mio padre, in cui personaggi di cartoni animati diversi finivano a interagire con Biancaneve o La Bella Addormentata ed era una gag continua che più che farmi addormentare mi mandava su di giri, anche perché ridevo a crepapelle invece di rilassarmi. Ecco, Wormell mi ha ricordato un padre che racconta una storia, solo che lui, a differenza del mio, non scorda cosa ha detto in precedenza e non cade in contraddizione. Un po’ come se non facesse sforzo e le parole uscissero quasi spontaneamente, quando invece è chiarissimo che tutto all’interno di questo romanzo è perfettamente studiato, il che a mio avviso denota un grande rispetto dell’autore verso il suo pubblico, che sarà anche molto giovane, a sicuramente non stupido.

Tra giganti buoni, streghe, pirati senza barba, bottiglie di rum, pozioni magiche, tesori da trovare e misteri da svelare, credo che La Bottiglia dei Desideri sia un libro adatto a qualsiasi età e mi sento di consigliarvelo in qualsiasi caso, che abbiate otto anni o ottantotto non importa, vi piacerà comunque.

martedì 9 maggio 2023

L’Erede rapito

  • Titolo: L’erede rapito
  • Titolo originale: The stolen Heir
  • Autrice: Holly Black
  • Traduttrice: Francesca Novajra
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788804772446
  • Casa editrice: Mondadori 
Trama


Sono ormai trascorsi otto anni dalla Battaglia del Serpente. Nel gelido Nord, la spietata Lady Nore ha reclamato per sé la Cittadella dell'Ago di Ghiaccio. Suren, regina bambina della Corte dei Denti e unica creatura ad avere potere su di lei, sua madre, è fuggita nel mondo umano, dove vive come una selvaggia nei boschi, in completa solitudine e perseguitata dal ricordo dei supplizi subiti per mano dei suoi genitori. Si crede dimenticata da tutti fino a quando non si accorge che la hag della tempesta, Bogdana, è sulle sue tracce. Ad aiutarla è nientemeno che il principe Oak, erede di Elfhame, al quale un tempo Suren era stata promessa in sposa. Di lui, ora diciassettenne, affascinante e bello, dicono che sia viziato e ribelle. Troppo scapestrato per sedere sul trono. E soprattutto un abile manipolatore. Il ragazzo sta compiendo una missione che lo condurrà al Nord per la quale ha bisogno dell'aiuto di Suren. Ma se la ragazza accetterà, sa che non solo dovrà proteggere il suo cuore dal ragazzo che conosceva un tempo e di cui ora non può più fidarsi, ma dovrà affrontare nuovamente gli orrori che pensava di essersi lasciata alle spalle. Con questo romanzo, primo di una dilogia, Holly Black ci riaccompagna nel mondo magico e opulento di Elfhame, tra intrighi, tradimenti e desideri che possono diventare anche molto pericolosi.


Recensione e commento

Prima di questo romanzo non avevo mai letto nulla di Holly Black, autrice molto prolifica e apprezzata ma che in qualche modo non mi ha mai attirata più di tanto.

Quando Beatrice mi ha proposto di leggere L’Erede rapito ho subito accettato perché prometteva di essere il primo di una nuova saga, per quanto ambientato nello stesso mondo dei romanzi precedenti, e perché finalmente avrei potuto togliermi la curiosità di leggere quest’autrice.

Ebbene: ho diverse cose da dire, prima fra tutte che se, come me, non avete letto gli altri libri di Holly Black questo testo vi sarà pressoché incomprensibile a causa dei continui rimandi a personaggi ed eventi precedenti che non appaiono fisicamente in questo nuovo libro. Quindi per quanto la storia sia nuova, bisogna comunque avere presenti le vicende degli altri romanzi così nel dettaglio che anche le altre blogger nell’evento appassionate di questa saga hanno fatto fatica a stare dietro a tutte le minuzie. Il confronto con loro, tra le altre cose, mi ha chiarito che la psicologia del personaggio maschile è in antitesi con quella che mostrava nei romanzi precedenti, al punto da sembrare addirittura una persona diversa.

Inoltre, ho trovato che la narrazione avesse dei problemi di ritmo, poiché alcuni elementi sono svelati troppo presto, altri troppo tardi. L’ormai immancabile parte romance, ad esempio, avviene praticamente subito, senza un adeguato preambolo e anche in questo caso nel gruppo di discussione su questa lettura è saltato fuori che in genere Holly Black non si concentra molto sulle storie d’amore, che preferisce lasciare marginali preferendo concentrarsi sulle psicologie, sugli intrighi e sugli eventi. In L’Erede rapito, invece, abbiamo sostanzialmente un quest fantasy alla ricerca di oggetti magici finalizzato a far stare assieme i due protagonisti nella classica dinamica mi-piace-ma-non-so-se-io-piaccio-a-l*i, sembra di leggere una vacanza un campeggio nel bosco con di tanto in tanto qualche pericolo da affrontare. Ciò che invece è stato svelato troppo tardi invece è la motivazione che spinge la protagonista ad agire, spiegata così in là nel romanzo da lasciare la sensazione di non conoscerla affatto, di non averla compresa. Di positivo c’è essa dubbio il fatto che la bellezza delle due creature protagoniste sia ai loro occhi innegabile, ma assolutamente fuori dai canoni per gli standard umani di noi che leggiamo, il che le rende comunque interessanti nel panorama di bellezze straordinarie in ogni libro young adult (non fate caso alle fanart che ho preso dal web: sono stati decisamente abbelliti e lucidati, il loro aspetto è molto meno da copertina di Vogue).

In sostanza, il mio parere è tiepido. Non si è trattato di un brutto libro per il cento percento del tempo, perché è comunque scorrevole, immersivo ed è interessante il modo in cui viene sviluppato il popolo fatato del folklore nordico, ma è un po’ pochino per reputarlo un’esperienza positiva.

Non so se leggerò altro di Holly Black, per adesso mi ha lasciata solo con la riflessione che forse è meglio lasciare morire le proprie saghe con dignità, quando hanno esaurito il proprio scopo narrativo, invece di annacquarle per continuare a mungerle senza di fatto creare nulla di degno di nota. 

venerdì 5 maggio 2023

Lady Smoke

  • Titolo: Lady Smoke
  • Titolo originale: Lady Smoke
  • Autrice: Laura Sebastian
  • Traduttrice: Francesca Bellacicco
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788834743348
  • Casa editrice: Fanucci
Trama


Il kaiser uccise la madre di Theodosia, la Regina del Fuoco, quando lei aveva solo sei anni. Conquistò il suo Paese e la tenne prigioniera per un decennio, incoronandola Principessa delle Ceneri. Ora non più. Il kaiser pensava che la sua prigioniera fosse debole e indifesa; non aveva intuito che una mente acuta è l’arma più letale. Theo non indossa più una corona di cenere, si è ripresa il titolo che le spetta e ha in ostaggio il principe Søren. Ma il suo popolo rimane schiavo sotto il dominio del kaiser e lei si trova a migliaia di chilometri dai suoi sudditi e dal suo trono. Per riconquistarli avrà bisogno di un esercito e l’unico modo per ottenerlo secondo sua zia, la pirata Dragonsbane, è prendere marito, cosa che una regina astreana non ha mai fatto prima d’ora. Theo sa che la libertà ha un prezzo, ma è determinata a trovare il modo per salvare il suo Paese senza rinunciare a sé stessa.


Recensione e commento

Lady Smoke, il secondo capitolo della trilogia iniziata con La Principessa delle Ceneri, è qualitativamente abbastanza simile al primo, tanto da presentare quasi gli stessi pregi e difetti.

La storia comincia esattamente da dove l’avevamo lasciata, ma anche in questo caso, con tutti gli avvenimenti che ci sono in ballo, il primo quarto di libro riesce comunque a essere abbastanza lento. Inoltre, questo segmento è ambientato tutto su una nave e l’atmosfera marinaresca non verrà mai pienamente percepita, solo di tanto in tanto la voce narrante ci ricorderà che siamo sul mare, ma i tentativi sono sempre un po’ fiacchi e non vanno quasi mai a buon fine.

Il problema del worldbuilding viene un pochino risolto quando si scende dalla nave per arrivare in una città straordinaria, che ci viene invece descritta nei minimi dettagli, in cui in effetti la storia comincia a prendere piede e anche un po’ di credibilità. A questo punto ci saranno inganni, intrighi politici e incontri diplomatici dove la protagonista scopre il vero prezzo dell’alleanza. Per quanto sia una lettura abbastanza leggera e scorrevole, Laura Sebastian cerca comunque di sviluppare temi importanti, come quello della manodopera sottopagata dei rifugiati, del sacrificio dei pochi per il bene di molti e così via. Sono tutti temi di un certo spessore che restano abbastanza sulla superficie, per quanto non vengano mai banalizzati.

Il cast in azione è praticamente lo stesso di quello di La Principessa delle Ceneri, per quanto alcuni personaggi abbiano molto più spazio e tridimensionalità di altri. Ad esempio, è abbastanza facile fare il tifo per uno dei due vertici dell’ immancabile triangolo amoroso dello young adult perché uno dei due bellocci della situazione ha più spazio e più approfondimento dell’altro. A questo proposito, personalmente sono stata abbastanza infastidiva dalla mancanza di chiarezza della protagonista nei confronti di questi due ragazzi, dato che rimbalza da uno all’altro senza che loro ne siano al corrente. Inoltre, per quanto tendenzialmente Theodosia sia una protagonista abbastanza incline al ragionamento, ho trovato molto tirato per i capelli il fatto che diventi improvvisamente stupida e imprudente solo quando serve per esigenze di trama, specialmente sul finale quando le sue azioni diventano incoerenti solo perché devono succedere alcune cose che l’autrice non sapeva come mettere sul piatto.

Le ingenuità di trama sul finale non finiscono qui, ce ne sono molte altre, come ad esempio il fatto che un personaggio fosse al corrente di un importantissimo dettaglio che ribalta la situazione e che per un motivo che non sta in piedi non ha rivelato prima, oppure ancora il fatto che un gruppo di sedicenni si rigiri attorno al dito i politici più in vista ed esperti sulla piazza.

Ma l’elemento che più di tutti mi ha fatto storcere il naso è l’episodio in cui Theodosia, passando attraverso un procedimento pericoloso, potenzialmente mortale e che al cento percento dovrebbe sfigurarla esattamente come è successo a un’altra persona, ne esce invece assolutamente indenne, anzi, la voce narrante ci tiene a precisare che la sua pelle era ancora liscia e morbida. Insomma, Theodosia è circondata da una plot armour da manuale, sia mai che una protagonista di un libro young adult possa non essere canonicamente bella: ancora una volta abbiamo fatto coincidere la bellezza esteriore con la levatura morale. Tipo Darth Vader e Luke Skywalker con le loro protesi.

Nonostante questi difetti, il finale, con delle scene di battaglia poco credibili e sicuramente non il cavallo di battaglia dell’autrice, è riuscito a sorprendermi nella gestione dell’antagonista, molto più interessante di quanto si prospettasse all’inizio, tanto da rendermi abbastanza appetibile il terzo libro della serie, in uscita a luglio.

So di essere sembrata abbastanza negativa, ma sapete bene che preferisco raccontarvi tutti i difetti in modo tale che siate voi a decidere se per la vostra sensibilità sono sopportabili o meno. In ogni caso, se non si prende troppo sul serio e ti tengono a bada le aspettative, anche Lady Smoke è abbastanza godibile e fa piacere farsi tenere compagnia da lui per qualche ora. 


A Study in Drowning - La Storia sommersa

Titolo: A Study in drowning - La Storia sommersa Titolo originale: A Study in Drowning Autrice: Ava Reid Traduttore: Paolo Maria Bonora Ling...