mercoledì 25 giugno 2025

The Spell Shop

  • Titolo: The Spell Shop
  • Titolo originale: The Spell Shop
  • Autrice: Sarah Beth Durst
  • Traduttrice: Bendetta Gallo
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN:
  • Casa editrice: Rizzoli
Trama


Kiela ha trascorso anni a lavorare in solitudine nella Grande Biblioteca imperiale di Alyssium, in compagnia solo di Caz, un'arguta e apprensiva pianta parlante. A Kiela va bene così, da sempre preferisce i libri alle persone. Ma quando nella capitale scoppia una violenta rivoluzione, è costretta a fuggire con il suo unico tesoro: manuali di antichi incantesimi, custoditi contro ogni legge. Arrivata sulla remota isola di Caltrey, Kiela scopre che il luogo della sua infanzia non è più lo stesso: la magia che un tempo lo nutriva è svanita, lasciando unicorni, gatti alati, spiriti della foresta e le altre creature magiche sempre più deboli. Kiela vuole aiutare, e preparare rimedi magici con un negozio di marmellate come copertura è la soluzione perfetta per guadagnarsi da vivere e salvare l'isola. Tutto sembra andare per il verso giusto, se non fosse per le intrusioni del vicino di casa, Larran, un affascinante allevatore di cavalli mer, deciso a farle abbattere ogni barriera. Kiela è combattuta tra il desiderio di fidarsi e la paura che aprirsi agli altri possa distruggere tutto ciò che ha costruito. Una storia magica e dolcissima per chi crede che il vero incantesimo sia essere pronti a lasciarsi amare.

Recensione e commento

Ma quanto è carina la copertina ceca?
Dopo vari tentativi sono arrivata alla conclusione che il cozy fantasy, e il cozy anche non di genere, è estremamente personale e bisogna rivedersi in qualcosa perché piaccia.

Questo per dire che comprendo ogni singolo motivo per cui diverse persone che conosco affermano che si aspettassero di più da questa lettura o ne sono un po’ deluse, ma io personalmente l’ho amato, perché mi sono rivista in tantissime cose, anche dal punto di vista delle tematiche trattate ce ne sono alcune tra le più care al mio cuore.

Tanto per cominciare, la popolazione non si divide in gruppi: non ci sono maggioranze o minoranze, ma solo individui unici. La protagonista stessa ha la carnagione azzurra e i capelli blu e tra centaure, o creature con corna altissime, oppure ali gigantesche, o ancora pelle coriacea o di colori particolari, non esiste uno standard fisico e non ci sono corpi conformi o non conformi. Tuttavia questo pone il facilmente risolvibile problema, dato che la soluzione di basa sull’ascolto dell’altrǝ, di rendere accessibile per tuttɜ i luoghi pubblici, poiché una porta potrebbe essere troppo stretta o troppo bassa per l’unǝ o l’altrǝ. In questo senso, spazi come il panificio o il negozio di marmellate sono importantissimi a livello comunitario e spesso la narrazione si concentra proprio qui, dove le persone vanno sia a nutrirsi di cibo delizioso, sia a confrontarsi, parlare di come affrontare le difficoltà che la loro cittadina sta affrontando. Il senso di coralità è palpabile sin dall’inizio quando gli scambi di leccornie, che sono piccoli lussi in un territorio sull’orlo della carestia, e piccole commissioni raccontano di una comunità pronta a proteggersi a vicenda proprio perché consapevole di doversi unire per sopravvivere. L’empatia e la gentilezza sono considerate forza, non debolezze.

Si parla di liberalizzazione della conoscenza in un momento storico complesso, perché un vecchio regime, basato sulla nobiltà che mantiene il suo privilegio anche tenendo per sé la magia, e uno nuovo sta sorgendo. The Spell Shop si apre con una rivoluzione e Kiela che fugge da una città in fiamme per andarsi a rifugiare sull’isoletta in cui è nata. Qui si rende conto di molte cose, tanto per cominciare mette in discussione la sua intera vita: c’è una discrepanza tra ciò che ha pensato di volere per tutta la vita e ciò che vuole davvero. Si rende conto che la vita a Caltrey non è una vita da cui scappare e forse il paesello delle sue origini è proprio il luogo in cui può realizzare i suoi sogni. Tendenzialmente rifuggo i libri che parlano di libri, troppo spesso c’è un mal riposto senso di superiorità che occhieggia troppo al pubblico in modo facilone, ma qui per fortuna il romanzo prende una sterzata diametralmente opposta: Kiela si rende conto che la vita fuori dalla biblioteca ha un valore, che i libri sono importanti quando la conoscenza è condivisa e che una vita di solitudine non è così auspicabile soprattutto dopo essersi auto convinta che fosse ciò che voleva. Nella grande città Kiela si era convinta che la routine fosse giusta, che andare a scuola e poi trovare un lavoro fosse giusto solo perché è così che si fa e questo non significa che le siano state imposte delle scelte, solo che spesso le nostre vite frenetiche ci inghiottono prima che ce ne rendiamo conto e spesso ne vediamo le idiosincrasie solo dopo che il ciclo si è rotto forzatamente. In determinati casi, The Spell Shop esce un pochino dai canoni del cozy perché il trauma esiste, è presente ma in un certo senso solo perché è nella natura delle cose: l’isola non è un posto dove i traumi vengono affrontati ed elaborati, ma il luogo dove ci si rifugia da essi. A ogni abitante è capitato qualcosa di brutto, ma lì ha trovato la sua serenità e grazie all’aiuto della protagonista, che, portando con sé la magia, riesce a far rifiorire l’intero borgo riuscirà. Uscire dalla crisi economica e climatica è possibile grazie a uno sforzo collettivo che mette al centro la cura degli spazi collettivi e individuali come forma della cura dell’altrǝ. 

L’assenza di violenza si porta fino alla fine, quando qualsiasi tipo di conflitto viene risolto senza mai prendere nemmeno in considerazione l’annientamento altrui, anche se personalmente ho avuto la sensazione che il finale sia stato un po’ tirato per le lunghe (per non parlare del fatto che il capitolo extra è completamente inutile a livello narrativo ed è anche inverosimile a livello immersivo). Non è un romanzo basto tanto sulla caratterizzazione dei personaggi, che sono a metà tra l’essere macchiette e tuttotondo, è l’interazione tra di loro, ma soprattutto l’ambientazione con tutto il contesto culturale che reggono il libro e lo rendono una coccola. 

The Spell Shop non è il libro della vita, questo è sicuro, ma non pretende di esserlo, vuole essere per noi un rifugio, una piccola isola felice in cui non esistono problemi insormontabili, c’è spazio per tuttɜ e le case profumano di marmellata e cannella. È stata per me una lettura sorprendente perché, nonostante tutto, si è rivelata più politica di quanto avrei immaginato prima di iniziarla.





mercoledì 18 giugno 2025

Hunger Games - L’Alba sulla Mietitura

  • Titolo: Hunger Games -  L’Alba sulla Mietitura
  • Titolo originale: Sunrise on the Reaping
  • Autrice: Suzanne Collins
  • Traduttrice: Simona Brogli
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN:
  • Casa editrice: Mondadori
Trama

All’alba dei cinquantesimi Hunger Games, i distretti di Panem sono in preda al panico. Quest’anno, infatti, per l’Edizione della Memoria, verrà sottratto alle famiglie un numero doppio di tributi rispetto al solito. Intanto, nel Distretto 12, Haymitch Abernathy cerca di non pensarci troppo, l’unica cosa che gli interessa è arrivare vivo a fine giornata e stare con la ragazza che ama. Quando viene chiamato il suo nome, però, il ragazzo vede infrangersi tutti i suoi sogni. Strappato alla sua famiglia e ai suoi affetti, viene portato a Capitol City con gli altri tre tributi del Distretto 12: una ragazza che per lui è quasi una sorella, un esperto in scommesse e la ragazza più presuntuosa della città. Non appena gli Hunger Games hanno inizio, Haymitch comprende che tutto è stato predisposto per farlo fallire. Eppure qualcosa in lui preme per combattere... e far sì che la lotta si estenda ben oltre l’arena

Recensione e commento

Un’intera generazione è stata segnata dall’uscita della trilogia di Hunger Games. Si è trattato di una dirompente novità nel panorama ya di quel periodo che ha portato al risveglio politico di molte adolescenti in un momento cruciale della loro formazione.

Ho letto e amato quella serie proprio in quegli anni, quando era un fenomeno pop al suo apice, per cui capirete la trepidazione mista ad ansia con cui mi approcciai a La Ballata dell’usignolo e del serpente, pubblicato quando ormai ero adulta e rischiavo di trovarlo deludente. Temevo potesse trattarsi di un prodotto fanservice che non avrebbe avuto nulla da dire e invece, felicemente, dovetti ricredermi perché quel romanzo, politologicamente perfetto, raccontava di tutte le piccole scelte, dei bivi della vita che alla fine portano un cattivo a diventare tale, tramite una catena di eventi che lo conduce a commettere atti orribili e per essi autoassolversi

Eppure, un po’ me lo sentivo che il libro su Haymitch non sarebbe stato all’altezza sia perché è successo quello che temevo inizialmente riguardo al romanzo su Snow, un po’ perché nonostante ci potessero comunque essere degli spunti interessanti da approfondire, restano comunque delle grandi occasioni mancate.

Già la premessa in sé è molto più traballante rispetto a ciò a cui l’autrice ha abituato il suo pubblico, perché di per sé scrivere un libro su Haymitch è già sintomo di un prodotto fanservice: noi sappiamo già tutto su di lui. Sappiamo che ha vinto gli Hunger Games, per cui viene tolta completamente la tensione che tiene incollate alle pagine, sappiamo persino le modalità attraverso le quali vince perché ci vengono raccontate il La ragazza di Fuoco, sappiamo che è diventato un alcolista a causa di tutti i ragazzini del suo distretto che ha visto morire anno dopo anno, senza poter fare nulla per salvarli. Sappiamo che Haymitch è un sopravvissuto che non è mai davvero uscito dall’arena nonostante tutta la sua voglia di vivere, e per quanto da un lato questo sia proprio l’aspetto che avrebbe dovuto essere maggiormente sfruttato, mostrandoci come Haymitch sia diventato l’Haymitch che conosciamo, dall’altro lato questo non solo non succede, ma addirittura resta un protagonista estremamente passivo.

L’Alba sulla Mietitura non rende omaggio a Haymitch perché cerca di fare qualcosa di diametralmente opposto ai libri che hanno Katniss come protagonista e nel farlo risulta parodistico, risulta la fanfiction di sé stesso, e sembra un’appendice attaccata a posteriori che non si incastra bene con la trilogia principale. Infatti, gli Easter egg sono forzati, i personaggi tanto amati della trilogia entrano in scena in maniera poco credibile, al punto da fare sembrare sia Capitol City, sia il Distretto 12 dei piccoli villaggi con pochissime persone, non degli Stati o delle grandi città. Questo crea dei problemi anche a livello di cifre, perché a un livello puramente matematico tutti i ragazzi e tutte le ragazze un anno o l’altro finirebbero sul palco del giorno della mietitura, proprio in virtù del numero ridotto, così come crea dei problemi il cast ridottissimo di personaggi di Capitol City. Le possibilità narrative per inserire personaggi secondari erano vaste, ma Collins ha creato delle situazioni inverosimili raffazzonate che altro non sono che fanservice.

Purtroppo non finisce qui, perché i difetti continuano. L’elemento che più mi ha dato fastidio è la totale mancanza di merito nella sua vittoria. Katniss aveva vinto perché era una proverbiale tempesta perfetta: una persona con delle abilità specifiche in un luogo adatto alle sue esigenze, mentre Haymitch è un miracolato, non vince per ablità o scaltrezza, ma perché qualcuno dall’alto ha deciso così per motivi politici e questo espediente, tra l’altro, viene sfruttato pochissimo perché come espediente poteva non essere male, ma manca totalmente l’immersione. Haymitch non ha motivi validi per comportarsi come fa e le sue emozioni sono sempre troppo blande per essere credibili. Si presenta in gara già sconfitto, non deciso a sopravvivere e questo è un elemento che stride terribilmente con il personaggio che ci è stato presentato nella trilogia. Non ha senso che un vincitore che dà ai suoi tributi il solo consiglio di “restare vivi” una volta nell’arena sia un tale disastro nel voler portare a casa la pelle, ritenendosi quasi un agnello sacrificale per cause più grandi. Non funziona proprio a livello narrativo nell’ottica selle serie nel suo complesso, anche se poteva funzionare, a livello puramente teorico, se il romanzo fosse  autoconclusivo. Haymitch doveva essere un vincitore, non un vincente: avremmo dovuto fare il tifo per lui sapendo già come sarebbe andata a finire, ovvero con lui alcolista e depresso, ma qui assistiamo a una persona eccessivamente idealista per farsi piegare, non vediamo, se non proprio sul finale tirato via, la persona che diventerà nella trilogia. Non ci viene raccontato un ragazzo che vince a dispetto delle probabilità, con le unghie e con i denti che che esce dall’arena senza che l’arena esca veramente da lui, ci viene mostrato un rivoluzionario a cui è andato male il colpo di stato e ciò è incoerente rispetto a ciò che sappiamo di lui dalla serie principale. Inoltre, sono moltissimi le contraddizioni rispetto ai libri su Katniss: stando agli eventi a cui assistiamo qui spesso Haymitch dovrebbe sapere delle cose che non sa, dire delle cose che non dice, avere delle opinioni che non ha. È questo che intendo quando dico che non è uno spin off che si sposa bene con la serie principale: la confuta in troppe occasioni.

Haymitch assomiglia a Katniss in tutte le cose sbagliate, in piccoli momenti citazionisti vuoti di significato, non in ciò che li ha uniti e consentito di capirsi anche nei silenzi. È come se Collins nel cercare di rendere la storia qualcosa di nuovo abbia in realtà stiracchiato tutto in modo tale da sfibrare la storia e renderla vuota e nel cercare di dire qualcosa di nuovo crea ridondanze dove non dovrebbero essercene.

Il messaggio che l’autrice intendeva mandare attraverso questo romanzo è la capacità dei media di manipolare le informazioni, creando delle narrazioni divergenti dalla verità e che rendono le persone coinvolte impotenti di raccontare la propria versione. Bello sulla carta, ma inefficace nell’esecuzione, che si perde in una storia talmente inverosimile, parodistica di sé stessa e a tratti barocca che rende la trama sopra le righe ma il contenuto troppo blando.

In conclusione, L’alba sulla mietitura è un libro scarico, privo del senso di critica dei suoi predecessori e che non ha molto da dire. È uno spin off che non rende omaggio al suo protagonista e gli fa fare brutta figura. Spero che Suzanne Collins si ravveda e riprenda a scrivere solo quando ha qualcosa da dire. 

mercoledì 4 giugno 2025

Two Twisted Crowns

  • Titolo: Two Twisted Crowns
  • Titolo originale: Two Twisted Crowns
  • Autrice: Rachel Gillig
  • Traduttrice: Lucia Feoli
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788809979499
  • Casa editrice: Giunti
Trama


Nel capitolo conclusivo della dilogia, Elspeth deve affrontare il peso di ciò che ha fatto, mentre lei e Ravyn si imbarcano in una pericolosa missione per salvare il regno ormai in preda a un re tiranno e alla magia nera. Elspeth e Ravyn hanno raccolto la maggior parte delle dodici Carte della Provvidenza, ma l'ultima – e la più importante – resta da trovare: gli Ontani Gemelli. Per recuperarla prima del Solstizio e liberare il regno, dovranno attraversare l'oscura foresta avvolta dalla nebbia. L'unico che può guidarli è il mostro che abita la mente di Elspeth, l'Incubo, ma lui non sembra più disposto a collaborare…

Recensione e commento

Il verbo “spremere” è spesso utilizzato con accezione negativa. “Mi ha spremuto come un limone” si dice quando una situazione ci prosciuga le energie. Eppure, la spremitura di un frutto di per sé non serve a prosciugarlo, ma a trasformarlo in qualcosa di diverso, spesso di più raffinato ed evoluto e ciò vale sia per la spremuta d’arancia, sia per la spremitura dell’uva per fare il vino. 

In questo senso, Two Twisted Crowns non è stato spremuto. È rimasto un acino d’uva, potenzialmente brunello di Montalcino ma mai diventato tale. E la colpa di ciò non è esclusivamente di Rachel Gilling, che visibilmente mancava dell’esperienza necessaria per fare di meglio, ma anche di tutto lo staff che non l’ha adeguatamente accompagnata nella stesura di un romanzo che si accontenta di essere ciò che è e non di ciò che potrebbe essere.

Perché non è possibile che un* editor professionista non abbia colto tutte le contraddizioni che sin dalle primissime pagine si susseguono: flussi di coscienza di personaggi che credono, come nel più classico bipensiero orwelliano, che due cose contraddittorie possano essere contemporaneamente vere. Delle figure professionali avrebbero dovuto accorgersi che troppe volte le dinamiche delle scene non sono chiare, rimangono aleatorie e poco verosimili e spaziano dalle scene di combattimento in cui i persinaggi si feriscono in modi non identificabili, a scene che dovrebbero essere un po’ sensuali ma che inevitabilmente rompono il patto di veridizione quando un personaggio si sfila gli stivali dai piedi soltanto dopo essere già rimasto in biancheria intima. 

A Two Twisted Crowns mancano direzione e chiarezza di intenti e ciò è palese sin dall’inizio, perché se in One Dark Window la voce narrante corrispondeva al punto di vista di Elspeth, qui assistiamo a una sterzata improvvisa e vediamo un’alternaza di pov tra Ravyn, Elspeth ed Elm. Quest’ultimo è unicamente incentrato sulle paturnie amorose di Elm verso il suo interesse amoroso, mancando completamente il punto della narrazione: ci sarebbe una maledizione da spezzare, in teoria, ma questi due pensano solo ad accoppiarsi. I capitoli a loro dedicati sono quelli che occupano più spazio, eppure sono anche quelli meno interessanti perché non raccontano nulla che sia funzionale alla trama. Oltre a questo, a mio avviso la cosa più grave in assoluto è che il sistema magico venga costantemente piegato alle esigenze di trama. È un continuo fare eccezioni per l’uno o per l’altra che dovrebbero subire determinati effetti della magia ma questo non succede mai.  I motivi non ci sono dati sapere, ma è chiaro che tutto è funzionale a mantenere intatta l’impenetrabile plot armour del cast.

Allo stesso modo, non si contano nemmeno gli dei ex machina, in particolare, la quest che gli altri personaggi affrontano, quelli che non sono in balia dei propri ormoni, è totalmente senza senso: il risultato che si ottiene è lo stesso che si sarebbe ottenuto comunque, anche senza di essa, la qual cosa mi è sembrata una mancanza di rispetto nei confronti del tempo che ho speso per arrivare alla fine e scoprire che è stata tutta una presa in giro. Inoltre, la struttura stessa quella quest non tiene perché le tempistiche sono gestite male: per andare da A a B si impiega circa tre giorni, mentre da B ad A basta una mezza giornata. Di nuovo: ma l’editor?

Ennesimo vorrei ma non posso è tutta la parte dedicata a Elspeth, persa nella propria mente. Mi duole dire che questa sia stata la peggiore occasione sprecata di tutto il romanzo, perché avrebbe potuto essere un viaggio dentro sé stessa, alla ricerca del proprio io mentre affrontava i suoi demoni, i traumi, le sue paure. E invece resta lì e incontra gente, mentre aspetta passivamente che le cose accadano. E in questo senso, anche l’Incubo, un personaggio interessantissimo nel primo libro, perde tantissima potenza, rivelandosi per niente di più che l’ennesimo deus ex machina con dei poteri francamente ridicoli e che non fanno nessuna paura. Tutto ciò che nel primo volume era interessante ma in fase embrionale, qui non trova né sviluppo né risposte, confermando che, con tutta probabilità, la trama non è stata concepita in modo organico nell’ottica dei due volumi. 

Mi intristisce il pensiero di ciò che questa dilogia avrebbe potuto essere e invece alla fine si è rivelata una doppia mancanza di rispetto sia verso l’autrice, che non è stata aiutata professionalmente, sia verso di noi, che ci stiamo abituando a storie sempre più scadenti.

mercoledì 28 maggio 2025

Blood Traitor - La Traditrice della Stirpe

  • Titolo: The Blood Traitor - La Traditrice della Stirpe
  • Titolo originale: The Blood Traitor
  • Autrice: Lynette Noni
  • Traduttrice: Angela Ricci
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788820074890
  • Casa editrice: Sperling&Kupfer

Trama

Dopo gli eventi a palazzo, Kiva è tormentata dal bisogno di sapere se la sua famiglia e i suoi amici sono al sicuro, e se coloro a cui ha fatto del male potranno mai perdonarla. I regni di Wenderall sono sull'orlo della guerra e lei si trova lontana dal cuore del conflitto. Ma, stavolta, in gioco c'è molto più del suo cuore spezzato.
Un nuovo inizio la porterà a intraprendere una missione pericolosa, una corsa contro il tempo che costringerà nemici mortali e alleati improbabili a lottare fianco a fianco per salvare non solo il regno di Evalon, ma l'intero continente. Ora, Kiva non può più limitarsi a sopravvivere: deve combattere per ciò in cui crede. Per chi ama.
Ma con il pericolo che incombe da ogni lato e la vita dei suoi cari in bilico, sarà abbastanza forte da resistere o questa sarà la sua ultima battaglia?


Recensione e commento

Nei confronti del capitolo conclusivo della trilogia dedicata alla Guaritrice di Zalindov nutro sentimenti ambivalenti: da un lato mi sono goduta questa lettura per la quasi totalità del tempo, dall’altro lato ci sono dei difetti oggettivi che hanno inficiato la qualità in numerose occasioni. 

Ma andiamo con ordine: il romanzo si apre esattamente nello stesso punto in cui si era concluso The Gilded Cage, ma già qui iniziano i problemi, perché le azioni compiute nel volume precedente avrebbero dovuto sortire effetti a lungo termine molto complessi da gestire, ma troppo spesso vengono liquidate in modo un po’ troppo semplicistico perché effettivamente troppo scomode da gestire e allo stesso tempo ci sono degli sviluppi che fanno intendere chiaramente che l’autrice non aveva pensato alla trilogia come creatura organica, poiché diverse situazioni che sembrano appiccicate a posteriori senza avere degli antefatti sufficientemente solidi per risultare credibili.

A questo proposito, in realtà si riesce quasi sempre, almeno in questa fase, a passarci sopra perché gli eventi sono talmente veloci e cadenzati che ci si accorge delle pecche tecniche solo a posteriori e l’investimento emotivo che c’è stato per oltre due libri è talmente forte che si perdona qualcosina. I problemi di godibilità arrivano più che altro verso la parte centrale, quando il ritmo rallenta drasticamente e parte una quest gestita in modo un po’ maldestro. Per quanto sia comune che durante le quest si scopra anche qualcosa su di sé, qui ci sono troppe dinamiche forzate, messe in scena esclusivamente per creare drammi non spinti da un effettivo movente narrativo, tutto esclusivamente per fare interagire i personaggi e creare tensione. La critica è che la suddetta tensione è uno degli elementi più carenti e caotici del romanzo perché dovuta a un problema di miscommunication che poteva essere risolto a pagina 12 se semplicemente i personaggi non avessero detto una cosa intendendo il contrario. Infatti, i protagonisti si comportano in modo incoerente, c’è una netta discrepanza tra ciò che dicono e come agiscono, fanno gaslighting ad altre persone e agiscono in modo diverso rispetto a ciò che dicono. È un tira e molla costante non motivato da una base solida, il che frustra tantissimo l’esperienza di lettura, soprattutto perché per due libri ci sono sì stati complotti e intrighi, ma di base non c’era tossicità nelle relazioni interpersonali, mentre qui la sterzata e talmente brusca che le droghe vengono troppo spesso usate come espediente per giustificare un’interazione o una condivisione delle proprie emozioni. Che poi, non è nemmeno vero che il brodo sia stato annacquato: il brodo che c’è è sufficiente, ma troppe volte viene governato nel modo meno convincente possibile, quasi frettolosamente e con poca riflessione. 

I primi due libri della serie erano apprezzabili non tanto per la loro innovazione, quanto per il loro senso della misura: c’era consapevolezza su chi fosse il pubblico e quanto dovesse essere ambiziosa come opera, non si voleva strafare, ma al tempo stesso gli elementi contenuti erano lineari e studiati.  Infatti, per quanto si trattasse di romanzi da intrattenimento, il pensiero che c’era dietro era molto logico e trama e personaggi erano ben gestiti, non lasciando mai nulla al caso. Per fortuna, questa linearità di pensiero ritorna sul finale del libro, dopo aver latitato per un po’, quando finalmente arrivano dei colpi di scena degni di questo nome che sono stati costruiti nell’arco di tutta la narrazione e che non spuntano fuori come dei ex machina.

Nel complesso, è stata una lettura piacevole ma oggettivamente altalenante dal punto di vista qualitativo. Gli elementi che sono stati apprezzati nei volumi precedenti ci sono, ma in misura ridotta e resta un po’ di rammarico per tutto ciò che poteva essere cesellato un pochino meglio. 

mercoledì 21 maggio 2025

The Inheritance Trilogy

  • Titolo: The Inheritance Trilogy - La Successione
  • Titoli originali: The hundred thousand kingdoms/The Broken Kingdoms/The Kingdom of Gods
  • Lingua originale: inglese
  • Traduzione di: Giulia Lenti & Benedetta Tavani
  • Codice ISBN: 9788804800910
  • Casa editrice: Mondadori 
Trama


In un universo in cui le divinità si muovono accanto agli esseri umani, una famiglia domina il mondo tra corruzione e violenza. La salvezza dell'umanità è nelle mani di tre giovani donne straordinarie che ancora non sanno di esserlo. Yeine Darr vive nel Grande Nord, povero e arretrato. Ma, quando sua madre muore in circostanze misteriose, scopre di essere l'erede al trono dei Centomila Regni e si ritrova al centro di una feroce lotta di potere. Oree Shoth, un'artista cieca, dà rifugio a uno strano senzatetto: un atto di gentilezza che la trascinerà in un incubo, nel cuore di una cospirazione per uccidere le Deidi in cui il suo ospite sembra coinvolto. Shahar Arameri è l'ultima discendente della famiglia che da duemila anni governa la Terra schiavizzando gli immortali, ma è anche innamorata del Deide Sieh. A chi sceglierà di essere fedele? Tutte e tre impareranno quanto possa essere pericoloso mescolare amici e nemici, esseri divini e mortali, amore e odio.

Recensione e commento


È finalmente tornato in italia l’esordio letterario della leggendaria N.K. Jamisin, già famosa nel nostro Paese per la sua trilogia successiva, quella della Terra Spezzata. L’idea di pubblicare l’intera serie in un unico volume in questo caso risulta vincente, perché, per quanto indubbiamente la storia vada in crescendo, se fosse stata pubblicata in singoli volumi come successo con Il Gargoyle, una grossa parte del pubblico avrebbe abbandonato la lettura.

Infatti, nel primo libro, I Centomila Regni, i pregi e i difetti si controbilanciano: il grande punto di forza è l’ambientazione, un mondo che solo l’immaginazione sfrenata di Jamisin avrebbe potuto partorire, con palazzi che sfidano le leggi della fisica, sistemi magici fuori dal comune e una società complessa e sfaccettata che, per una volta, non è lo specchio della nostra: Jemisin, nell’arco dell’intera trilogia più che del singolo libro, non limita la sua immaginazione all’estetica del mondo che ha creato ma la approfondisce al punto da intessere rapporti sociali che sono più simili (con tutte le eccezioni e le limitazioni del caso) a quelli di una società ideale che a quelli che viviamo nella realtà. Tuttavia, la protagonista non riesce a sfruttare pienamente il suo potenziale come personaggia principale, perché nonostante sia nata e cresciuta in una società matriarcale in cui è stata addestrata a combattere e regnare fin dalla più tenera età, resta comunque molto passiva quando viene sbalzata in un mondo diametralmente opposto. È appunto la trama il punto più debole di questo primo volume, perché è molto nella media: per quanto gli intrighi di corte siano interessati e qualche volta sorprendenti resta comunque una storia portata avanti dai secondari che usano Yeine per i propri scopi e lei si lascia usare. Alcuni dei personaggi più attivi della storia sono le divinità che vengono tenute al guinzaglio dalla famiglia reale. A dispetto della loro natura, le loro emozioni sono umanissime e travolgenti, al punto che la protagonista si ritrova spesso in balia di loro e del belloccio di turno, un po’ come le eroine dei moderni ya.

Ma non mentivo quando dicevo che questa serie va in crescendo, perché il secondo libro della trilogia, I Regni spezzati, racchiude in sé una trama più originale e una protagonista più attiva. Questa è una particolarità molto piacevole della Trilogia della Successione: alcuni personaggi del cast sono sempre gli stessi, ma la voce protagonista cambia sempre e vediamo l’evoluzione sia del worldbuilding che della società tramite le loro percezioni. Non voglio svelare troppo per non fare spoiler del primo romanzo, ma persino l’ambientazione cambia e muta, diventando ancora più assurda e sfaccettata, diramandosi sempre in direzioni imprevedibili. È apprezzabile anche il tentativo dell’autrice di raccontarci la vita di una protagonista cieca, riuscendo, tuttavia, in una rappresentazione fatta bene solo a metà. Jamisin è bravissima a creare un universo non abilista, ma non è sufficientemente esperta nell’immergere chi legge nella percezione di una persona a cui manca la vista: troppe volte ci si dimentica che la protagonista non può vedere perché tutta la storia ci viene raccontata per immagini con tanto di sfumature di colore, anche in dei modi che evidentemente lei non può conoscere. In ogni caso, questo è stato il difetto maggiore che ho trovato in questo secondo capitolo, che mi ha coinvolta decisamente più del primo e mi ha invogliata a proseguire con la lettura del terzo, Il Regno degli Dei.

Qui la voce narrante cambia per la terza volta, spostandosi decenni dopo il primo libro, e assistiamo alla storia raccontata tramite una delle divinità che abbiamo conosciuto sin dal primo libro. Un dio intrappolato nel corpo e nella psiche di un bambino, un essere a metà tra tante cose e per questo motivo dotato di una bussola morale molto diversa da quella umana, specialmente perché volubile. Scaltro e ambiguo, schiavo degli impulsi momentanei come qualsiasi bambino, qui la deide Sieh dovrà imparare a fare i conti con l’età adulta e muoversi in un mondo che desidera cambiare. Ed è infatti questa la tematica centrale del capitolo conclusivo: la paura del cambiamento e della solitudine. Ma niente nell’universo è immutabile e immutato, neanche le divinità, che alla fine dovranno comprendere che l’età adulta non è qualcosa da temere. Il Regno degli Dei è forse il mio preferito sotto l’aspetto degli argomenti trattati, tuttavia, credo che avrebbe potuto essere un po’ più sintetico e occupare meno spazio. Praticamente metà del tomo che raccoglie l’intera trilogia è occupato dalla mole di Il Regno degli Dei

La Trilogia della Successione è un assaggio di ciò che Jemisin ha fatto successivamente e fa venire l’acquolina in bocca: vediamo già la sua capacità di creare mondi impensabili da chiunque a parte lei e immaginare la narrativa in modi che escono totalmente fuori dagli schemi. 

mercoledì 14 maggio 2025

Il Pianeta dell’Esilio

  • Titolo: Il Pineta dell’Esilio
  • Titolo originale: Planet of Exile
  • Autrice: Ursula K. Le Guin
  • Traduttore: Riccardi Valla
  • Lingua originale: inglese 
  • Codice ISBN: 9788804798521
  • Casa editrice: Mondadori 
Trama

Su Werel, terzo pianeta del sistema di Gamma Draconis, le stagioni durano decine d'anni terrestri, e ora l'Autunno sta per finire. L'Inverno sarà una sorpresa per le generazioni più giovani, che non l'hanno mai conosciuto, e una dura prova per tutti. Ma le ostilità del clima non sono le sole contro cui gli abitanti devono combattere: ci sono anche i barbari Gaal e i mostruosi diavoli della neve. La contesa contro la natura avversa e i nemici esterni unisce le due razze umanoidi di Werel: i Nati Lontano, ultimi superstiti della colonia hainita che vivono nella città costiera di Landin, ormai isolati da oltre seicento anni dalla madrepatria, e i nomadi nativi del pianeta. È così che Jakob Agat Alterra, discendente degli "alieni" hainiti, conosce la giovane Rolery, figlia di un capo Clan nativo, e se ne innamora. Ma non sarà facile stabilire un'alleanza fra due razze che sembrano destinate all'eterna incomprensione. Pubblicato nel 1966, "Il pianeta dell'esilio" costituisce il secondo tassello del ciclo dell'Ecumene, un grandioso affresco della storia futura dell'umanità che Ursula K. Le Guin tratteggia con un'eccezionale abilità nel dare vita sulla pagina ad affascinanti mondi alieni.


Recensione e commento 

Il Pianeta dell’Esilio è in ordine di cronologia interna il secondo libro del ciclo dell’Ecumene e, essendo stato scritto nel 1966, è precedente a quello che l’autrice stessa chiama “il suo risveglio femminista”.

Infatti, è proprio Le Guin stessa a fornirci la chiave di lettura di questo romanzo nell’introduzione che è stata pubblicata con l’edizione del 1978, dove racconta di non essere stata consapevole, fino a un certo punto della sua vita, di aver creato storie ricche di uomini che prendono il sopravvento e di donne che agiscono molto meno. Eppure, il suo avvicinamento alla filosofia taoista le ha consentito di creare una protagonista, Rolery, che agisce secondo il principio del wu Wei, l’agire tramite il non agire. Per questo motivo, il Pianeta dell’Esilio mi è risultato una lettura più piacevole rispetto a Il Mondo di Roccanon, ma meno di altri romanzi successivi, perché più maturi e consapevoli sotto il profilo femminista.

Eppure, i temi cari all’autrice qui ci sono tutti e sono narrati in una storia tutto sommato lineare ma complessa sotto il punto di vista dell’ambientazione e dell’approfondimento psicologico. Il mondo in cui ci troviamo è un pianeta in cui le stagioni cambiano una sola volta nella vita delle persone perché un singolo anno solare dura circa settanta dei nostri anni. Su Werel sono sbarcati gli hainiti da centinaia di anni terrestri e scopriamo numerose informazioni riguardo all’Ecuemene: ai suoi rappresentanti è vietato imporre sistemi culturali, tecnologici o religiosi sui pianeti di approdo per non sfociare in dinamiche colonialiste. Sfortunatamente ciò porta a uno stallo lungo generazioni perché gli hainiti restano incastrati nella memoria del passato, perdono conoscenze comuni nella loro casa di origine e dimenticano nozioni che nella loro vita attuale non hanno più utilità né importanza, sentendo di non appartenere né al mondo da cui provengono, né a quello in cui si trovano, il tutto mentre aspettano invano che le popolazioni locali sviluppino un grado tecnologico sufficiente a giustificare la loro entrata nella Lega di Tutti i Mondi. Questa storia, nonostante si concentri sulla guerra, parla di come due popoli che non riescono a mischiarsi né culturalmente né biologicamente, alla fine facciano tabula rasa per riuscire a creare qualcosa di nuovo. 

Entrambi i popoli, sia l’approdato che il nativo, considerano sé stessi i veri umani e “alieno” chi non appartiene alla loro specie, nonostante i punti di incontro siano molteplici e prolungati nel tempo. Non è semplice creare qualcosa e in effetti Il Pianeta dell’Esilio si conclude con una speranza, con un punto di partenza più che di approdo, ed è un processo che la generazione corrente vive con sofferenza, perdendo molto mentre nasce qualcosa di nuovo, eppure per me è stato emblematico il modo in cui la vita riesce ad adattarsi a qualsiasi condizione e cambi costantemente, con ostinazione. 

Come sempre, anche il livello della scrittura è altissimo, ma questa volta Le Guin si è spinta persino oltre, perché pur raccontando con narratore esterno mantiene una focalizzazione interna mobile che rende perfettamente la psicologia del personaggio in scena in quel momento, dai conflitti di interiori di Agat, alla costate perdita del filo del discorso da parte dell’anziano Wold, ormai alla fine dei suoi giorni. 

Il Pianeta dell’Esilio è una storia di comprensione dell’altrǝ, di vicinanza e incontro specialmente nei momenti di crisi, di scegliere di vedere le somiglianze invece di evidenziare le similitudini. Le Guin è riuscita a emozionarmi un’altra volta.

mercoledì 7 maggio 2025

Cadavere squisito

  • Titolo: Cadavere squisito
  • Titolo originale: Cadáver exquisito
  • Autrice: Agustina Bazterrica
  • Traduttrice: Francesca Signorello 
  • Lingua originale: spagnolo
  • Codice ISBN: 9791280495600
  • Casa editrice: Eris
Trama


Marcos lavora nel mercato della carne da sempre, è un’attività di famiglia. Ma ora le cose sono cambiate, in modo radicale e irreversibile. Un virus ha attaccato gli animali, sia domestici che selvatici, per cui sono stati tutti sistematicamente abbattuti e la loro carne non può assolutamente essere consumata. Ora la carne che tratta è diversa, speciale, perché i governi di tutto il mondo hanno dovuto affrontare la situazione e hanno deciso di rendere legale l’allevamento, la produzione, la macellazione e la lavorazione della carne umana. Marcos si è dovuto adattare, cerca di non pensare a cosa fa per vivere, e fa del suo meglio per stare dietro a fornitori, clienti, ordini e consegne, perché deve pagare la casa di riposo in cui vive suo padre. E ora che sua moglie lo ha lasciato deve pensare a tutto da solo.


Recensione e commento

Quando si dice “breve ma intenso” si intende senza dubbio qualcosa di molto vicino a Cadavere Squisito, una lettura che sicuramente non suscita indifferenza e che difficilmente verrà dimenticata.

Tanto per cominciare, si tratta di una storia con più stratificazioni di significato delle quali quella letterale non è sicuramente trascurabile. Infatti, in questa Argentina del futuro gli animali non vengono più macellati e mangiati: sono gli esseri umani a venire allevati, ingrassati, uccisi e consumati. Improvvisamente, quando vediamo dei nostri simili nella posizione in cui noi mettiamo gli animali ci accorgiamo di quanto il sistema sia crudele e assurdo. Questa parte, quella letterale, è quella che mi ha scioccato di più ma non nel modo che pensavo: mi ha scioccato non essere rimasta scioccata più di tanto. Anche io, come chiunque altro sono talmente abituata alla violenza da non essere rimasta troppo toccata da un racconto in cui esseri umani come me e voi vengono letteralmente mangiati da altri umani. Mi ha fatto mettere in prospettiva la cultura in cui sono immersa ed è stato un bel colpo comprendere che non sono sensibile quanto pensassi.

Il livello metaforico, invece, si dirama su più livelli: sono soprattutto gli immigrati, i senzatetto, gli emarginati della società a essere vittime della prima ondata, ovvero quella in cui le persone vengono catturate e mattate, prima che venisse affinata la tecnica per sottomettere, rendere mansuete e controllate le nuove “bestie”. Anche all’interno del macello ci sono comunque “capi di bestiame” serie A e di serie B, ci sono i capi normali, allevati a mangimi pieni di ormoni e quelli che vengono cresciuti con cibi biologici solo per essere abbattuti mentre sono più sani possibile. In maniera quasi sfacciata, le femmine (che non sono vere e proprie donne proprio perché viene impedito loro di avere uno sviluppo cognitivo tale per cui possano dirsi persone adulte. In questo senso uso la parola “femmine”, perché non sono adulte cognitivamente, non perché intendo deumanizzarle) se la passano peggio dei maschi: costrette a gravidanze, arti tagliati per impedire loro di autolesionarsi, separate dai loro bambini e addirittura utilizzate come selvaggina a cui sparare mentre scappano per la propria vita mentre sono incinte, riescono comunque ad avere una condizione persino peggiore rispetto ai maschi che vengono allevati come stalloni che hanno più spazio e cibo migliore quasi fino alla morte. E non stupisce di certo vedere come chi ha più denaro e privilegio abbia anche il potere di fare del male impunemente. Come in un’estremizzazione neanche troppo eccessiva assistiamo a come il capitalismo, tramite i suoi esponenti al vertice della piramide, privi gli individui alla base delle libertà fondamentali, come sprema chiunque fino all’osso, come tutto, dalle interiora alla pelle venga utilizzato per essere venduto e trarne un profitto, e non c’è niente di nobile in questo: farsi spremere fino all’osso senza mai farsi domande e senza mai poter scendere dal nastro trasportatore è tutto fuorché glorioso, perché anche noi siamo prodotti da vendere.

Non sono nemmeno solo gli umani macellati le sole vittime del sistema, perché anche chi lavora nell’industria in un certo modo mi ha dato da pensare: nessuno vuole davvero fare quel mestiere, molti si sentono male, svengono e alla fine mollano, mentre i pochi che lo vogliono hanno degli evidenti problemi di sadismo: non puoi amare il tuo lavoro ed essere normale al tempo stesso, in un mondo così. Se non odi il tuo lavoro hai qualcosa che non va. Molti macellai fanno un lavoro che disprezzano solo per mantenere la famiglia e devono in qualche modo mettere un muro emotivo tra sé e quello che fanno per vivere, per non impazzire e non portare tanto dolore a casa, per quanto in una certa misura questo sia impossibile al punto che la nuova generazione è completamente desensibilizzata alla violenza e non ha più speranza di ricevere un contatto umano sano. Insomma, un po’ come in La fattoria degli animali di Orwell, la massa non ha consapevolezza del proprio potere, della forza del numero e vive senza nemmeno avere una voce in luoghi in cui viene allevata con il solo scopo di essere un prodotto e arricchire chi è già ricco, mentre chi deve sbarcare il lunario odia comunque il proprio lavoro e ha disgusto al pensiero di andarci tutte le mattine. Tutti detestano la propria vita e usano tantissimi termini edulcorati per raccontare un fenomeno agghiacciante in cui la maggior parte è vittima e pochi traggono profitto. La macellazione, poi, è anche la punizione per chiunque violi le norme sociali, perché alla fine siamo davvero sulla stessa barca e i ruoli possono invertirsi in un batter d’occhio, senza che si riesca davvero a rivoluzionare la situazione.

Lo stesso Marcos, il protagonista, ha un po’ lo stato d’animo di Winston di 1984, un individuo che sente una profonda insoddisfazione e un distaccamento tra ciò che pensa e ciò che dovrebbe pensare. Si rende conto delle idiosincrasie del sistema, delle sue contraddizioni ma sa di non poter combattere perché ha ancora troppo da perdere. E alla fine, senza nessuna speranza, anche lui amerà il Grande Fratello, appena trarrà il minimo vantaggio dall’oppressione altrui, dimenticando in un battito di ciglia quanto gli sia stato portato via dal sistema per avere in cambio un misero granello di soddisfazione. Il sistema che ci racconta è il nostro: quello in cui abbiamo così poco, ottenuto tramite modalità che odiamo e che è guadagnato su pile di cadaveri altrui.

Cadavere Squisito è un libro che schiaffeggia e fa male, che racconta di come ogni nostro successo sia in qualche modo basato sull’oppressione dei nostri simili e non risparmia nessuna parte della società dalle sue ferocissime critiche.

The Spell Shop

Titolo: The Spell Shop Titolo originale: The Spell Shop Autrice: Sarah Beth Durst Traduttrice: Bendetta Gallo Lingua originale: inglese C...