- Titolo: La lunga Notte senza Luna
- Titolo originale: The spear Cuts through Water
- Autore: Simon Jimenez
- Traduttrice: Marinella Magrì
- Lingua originale: inglese
- Codice ISBN: 9788804781455
- Casa editrice: Mondadori
Penso sinceramente che La lunga Notte senza Luna sia uno di quei libri dei quali non si possa dire se siano belli o brutti, perché è così fuori dal comune e così particolare che solo voi, provando a leggerlo, potete decidere se vi piaccia o no. A me è sinceramente piaciuto, l’ho percepito un po’ come se N.K. Jamisin avesse scritto Il Mare senza Stelle, immaginatevi che trip.
Già solo la struttura è originalissima, la narrazione si sviluppa “a matrioska”, c’è una storia, dentro una storia dentro una storia, con un tono e uno stile che cambiano a seconda del lettore implicito. Lo so, è complicatissimo, ma è così: la narrazione si apre usando una seconda persona singolare, con un narratore onnisciente che si sta rivolgendo sia a noi, sia a un ascoltatore che sarà solo occasionalmente un personaggio attivo e mai protagonista. A noi e a lui viene raccontata la storia del Teatro Riflesso, in cui si può andare solo una volta nella vita, nei propri sogni. Ed è proprio qui che l’ascoltatore, che poi siamo noi, diventa personaggio e la maggior parte della sua attività consiste nell’assistere alla storia che viene messa in scena. La sua vita personale, quella del mondo da sveglio, si intrufola solo saltuariamente e la conosciamo a grandi linee (la guerra, i fratelli, il padre severo), la narrazione a cui viene riservato il novanta percento dello spazio è appunto quella che viene messa in scena nel teatro: è quella di cui sappiamo tutto, ambientazione, vita morte e miracoli dei personaggi, sistema politico etc. È il vero centro del romanzo e la chiave per interpretare tutto il resto perché è un po’ come se ci venisse fornito un racconto universale sulle nostre origini come individui e come popolo che è sepolto dentro di noi. Non sappiamo in modo consapevole che è lì, ma in qualche modo ci forma e ci definisce.
Generalmente amo sviscerare i significati nascosti, le metafore e quello che l’autore voleva veramente dire senza dirlo in modo esplicito, ma qui mi trovo completamente spiazzata, perché credo che sia un po’ una di quelle storie universali che potrebbero essere analizzate per secoli. È un romanzo che va avanti per archetipi che sono universali e non sono riconducibili a una sola mitologia, ma a tutte, poiché è collocata fuori dallo spazio e dal tempo. Anche in questo risiede l’originalità del libro, perché non sembra la rielaborazione di qualcos’altro e penso che sia uno dei rari casi in cui l’aggettivo “inimitabile” sia veramente calzante. Va da sé, non penso che l’originalità sia una valore assoluto, a volte basta solo narrare bene un bel racconto, ma in questo caso è un pregio proprio per il fatto che non è solo simulata, ma portata al suo apice, limata e cesellata. È indubbiamente anche un esercizio di maniera, ma mi ha anche lasciato qualcosa a livello emotivo, per quanto io non sappia ricondurre questa sensazione a un singolo elemento preciso, perché le tematiche contenute sono tantissime e non veicolano messaggi semplificati. Si parla di redenzione, di potenti che pensano a fare festini mentre arriva la fine del mondo (se vi ricorda qualcosa immagino che non sia casuale), di leggende che prendono vita, di ciò che ereditiamo dalla nostra famiglia, di poteri magici tramandati, di rinascita, di perdono e divinità che possono morire, il tutto mentre gli ingranaggi della trama si incastrano uno alla volta e il meccanismo continua a girare con un’armonia che vedo sempre più di rado. Infatti, a questo proposito, per quanto La lunga Notte senza Luna si apra con un incipit che sembra quasi un’allucinazione, quando si arriva alla fine lo si fa con la consapevolezza che nulla è stato lasciato al caso e ogni pezzo è andato al suo posto.
Fra, abbiamo capito che ti è piaciuto, ma quindi è perfetto?, mi chiederete. No, qualche piccolo difetto c’è, anche se è trascurabile nella cifra totale del romanzo. Innanzi tutto, il primo errorino che mi viene in mente è che i nomi di due personaggi sono troppo simili perché iniziano con la stessa lettera, hanno la stessa lunghezza e hanno circa le stesse vocali all’interno della parola; questo mi ha portata in un paio di occasioni a confonderli e dover tornare indietro di un paio di paragrafi per capire chi avesse fatto cosa. Inoltre, ho trovato un problemino nella rappresentazione di Keema, un guerriero a cui è stato amputato un braccio. Sebbene sia auspicabile la rappresentazione di corpi sempre diversi e mi abbia fatto piacere vedere per una volta un corpo con una disabilità dall’inizio alla fine, senza che per magia ricresca il braccio alla chiusura del libro, allo stesso tempo non ha nessuna delle difficoltà che realisticamente dovrebbe avere: si arrampica con un braccio solo senza mai un’esitazione, combatte senza che questo sia mai uno svantaggio e non ci viene mai spiegato come venga compensata la sua mancanza nello svolgimento delle azioni più complesse. Insomma, ci viene detto esplicitamente della sua disabilità, ma manca l’esperienza immersiva nella sua vita, anche perché non ha aiuti di altro tipo. E non penso che in questo caso l’autore volesse renderlo un super umano, credo, più che altro, che non ci abbia pensato e non si sia immedesimato a sufficienza nel suo protagonista da capirne la quotidianità al cento percento. In qualche modo, questo rovina un po’ la rappresentazione, proprio perché sotto questo aspetto è un lavoro fatto a metà. Ma questo è davvero tutto quello che ho da dire sui difetti.
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