martedì 30 luglio 2024

Jonathan Strange e il signor Norrell

  • Titolo: Jonathan Strange e il signor Norrell
  • Titolo originale: Jonathan Strange and Mr. Norrell
  • Autrice: Susanna Clarke
  • Traduttrice: Paola Merla
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN:
  • Casa editrice: Fazi
Trama

In una Londra alle prese con una difficile guerra, due uomini stanno per cambiare la storia con i loro potenti incantesimi.
Nel bel mezzo delle guerre napoleoniche, la maggior parte degli accademici crede che la magia sia ormai completamente scomparsa in Inghilterra. Tutto cambia quando il timido erudito signor Norrell rivela pubblicamente le sue abilità di mago, dando vita a un’ondata di entusiasmo che dilaga per tutto il paese e lo trasporta fino ai salotti dell’alta società di Londra, dove mette i suoi poteri al servizio dei politici e scende a patti con un gentiluomo proveniente da un regno fatato. Un altro mago emerge allora sulla scena: è il giovane e audace Jonathan Strange, che prima diventa il discepolo del signor Norrell e poi ne mette in discussione tutte le teorie, attirato com’è dalle forme più pericolose e oscure della magia. Nel corso degli anni, la battaglia fra i due maghi si fa più accesa di quella dell’Inghilterra contro Napoleone, finché le loro ossessioni e ambizioni segrete non metteranno a rischio la vita di molte persone e cambieranno per sempre la storia della magia inglese.

Recensione e commento

Da un lato, trovo assurdo che per leggere una storia originale e nuova io abbia dovuto rivolgermi a un libro pubblicato quasi vent’anni fa e che l’autrice ha cominciato a scrivere addirittura nel ‘92. 

Jonathan Strange e il Signor Norrell è una storia che celebra il fantasy, un libro che, ricalcando le forme del romanzo ottocentesco rende omaggio a un intero genere che viene spesso escluso dal discorso letterario in quanto ritenuto escapista. Qui, non solo la magia viene studiata da un punto di vista accademico, con tanto di dibattiti accesissimi tra intellettuali, ma diventa affare di Stato a più riprese: si fa strumento da impiegare in guerra, tecnologia per salvaguardare il territorio e Storia da studiare per poter risolvere questioni annose di natura diplomatica. Gli omaggi ai romanzi che hanno fatto la storia sono delicati, saltuari, ma chiarissimi, per cui Il Signore degli Anelli e Le Cronache di Narnia diventano leggende o fatti accertati che sono materia di discussione tra eruditi. Il contesto accademico consente a Susanna Clarke di muovere anche qualche critica al classismo che persiste in tale ambiente, all’elitismo e alla mancanza di condivisione delle informazioni perché, come al solito, chi ha il potere vuole sempre tenerlo per sé, anche precludendo la circolazione dei libri, unica fonte di conoscenza del periodo in questione.

L’universo creato e il suo sistema magico sono bellissimi ed evocativi. Per quanto gli incantesimi eseguiti non vengano mai spiegati nei dettagli, questo contribuisce a dare l’idea di trovarci davanti a un romanzo dell’Ottocento, assieme alla trama ingarbugliata e molto diversa rispetto alla linearità a cui ormai abbiamo fatto l’abitudine con i romanzi di oggi. In Jonathan Strange e il Signor Norrell non si sa mai dove si andrà a parare, non si può prevedere quale sarà la mossa successiva ed è impossibile immaginare in quale modo si avvereranno le profezie. Di conseguenza, anche i protagonisti sono variegati: per quanto i personaggi siano i tipici uomini della borghesia inglese dell’epoca, quelli più interessanti sono i secondari che spesso muovono i fili della storia, anche inconsapevolmente. Ci sono maghi di second’ordine coperti di tatuaggi blu, dame a cui manca un dito della mano, maggiordomi neri e creature fatate di bell’aspetto e pessima morale. Non è un romanzo che si legge per la frenesia di completare la storia, quanto per farsi cullare dalle sue atmosfere e calarsi in questo mondo fatato fatto di ombre, biblioteche e pietre parlanti. 

Jonathan Strange e il Signor Norrell potrebbe non essere il libro del vostro cuore, potreste percepire un po’ di distacco tra la storia e la vostra emotività. Potreste essere tra chi non riesce a mettere giù il libro e chi di tanto in tanto ha bisogno di una pausa, ma sicuramente non è una lettura che vi susciterà indifferenza. 

lunedì 22 luglio 2024

Krithi K.

  • Titolo: Krithi K.
  • Autrice: Silvia Benedetta Piccoli
  • Lingua originale: italiano
  • Codice ISBN: 9788855421317
  • Casa editrice: Delrai
Trama


Durante una notte di tempesta, Alba scompare. Anche se ha l'aspetto di un'angelica ragazzina, cela un segreto; un segreto di cui nemmeno la sua famiglia è al corrente. Lei è diversa, lo sente dall'odore. Tra improbabili detective in giro per la Francia, scienziati di dubbia moralità, scoperte incredibili, in una lotta tra il bene e il male nel nome della scienza, c’è una sola risposta da trovare: E se la presunta ragione degli esseri umani conducesse a vie più terrificanti dell'istinto? Età di lettura: da 10 anni.

Recensione e commento

Krithi K. è un romanzo che ho letto un po’ per caso, ma che comunque è stato una gradevole sorpresa. Quando Delrai mi ha offerto la copia digitale per questa collaborazione ho subito pensato che facesse al caso mio sia per gli argomenti trattati, sia perché mi consentiva di andare avanti nel mio progetto di leggere più penne italiane.

Ma andiamo con ordine, comincio col dire che la parte che ho preferito di questo fantascientifico è quella iniziale perché è quella che mi ha suscitato il maggior numero di riflessioni. Nel primo terzo del libro ci troviamo in Francia, in un laboratorio in cui vengono svolti esperimenti da un’équipe di cui fa parte anche Krithi, una scienziata emigrata dall’India che ha quindi una visione del mondo molto diversa rispetto a quella in cui si trova immersa in Europa. In particolare, si pone molti dubbi sul trattamento degli animali nella scienza, sul concetto di specismo e sul modo corretto di fare le cose. Krithi è stata a mani basse la protagonista che ho preferito perché ho davvero sentito le sue emozioni, l’ho trovata estremamente ben caratterizzata e credibile nel suo sentirsi spaesata. È una scienziata che per quanto possa avere grande fiducia nei protocolli, spesso si farebbe trascinare dall’emotività perché fatica a tenere distinte la sua coscienza individuale dall’analisi critica distaccata. È la protagonista che si pone i problemi in materia di gerarchia delle specie sul nostro pianeta e che non capisce perché tutto ciò che è considerato “altro” da noi umani possa essere considerato inferiore. Non essendo lei occidentale, il suo sguardo è utile per mostrarci come la scienza non sia né neutra né priva di condizionamenti sociali e come moltissimi altri ambienti in cui esistono gerarchie è dominata dal pensiero bianco.

Loro sono Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna,
premio Nobel per la chimica del 2020 per aver
sviluppato la tecnica di editing genetico CRISPR
Diverso è il discorso per la parte finale, che mi ha convinta meno. Le conclusioni che vengono tratte sono spesso troppo pseudoscientifiche. Chiariamoci, trovo accettabile, e anzi giustissimo, che si usi la letteratura per mandare un messaggio, qualsiasi esso sia, ma mi fa sempre storcere il naso quando vedo la scienza piegata per giustificare delle convinzioni personali, per quanto legittime. Volendo stare sul generico, non ho apprezzato molto la presenza di uno scienziato pazzo che agisce in modo abbastanza indipendente e che vuole modificare il DNA di varie creature per dei motivi un po’ nebulosi. Tutta la parte della modificazione del genoma mi è sembrata troppo tirata per i capelli e un po’ disinformata. Non intendo dire questo in modo offensivo, solo che mi è riuscito difficile mantenere la sospensione di incredulità quando si trattava l’argomento perché mi lasciava perplessa vedere quanto rispetto al mondo contemporaneo certe conclusioni fossero arretrate: spesso la fantascienza serve perché l’immaginazione anticipi il mondo reale, ma in questo caso il mondo reale è già molto più avanti rispetto a quello narrativo. Senza voler entrare troppo sul tecnico, dato che comprendo che la finzione non debba essere scientificamente accurata al cento percento, proprio perché la narrativa non è saggistica e l’inventiva deve avere il suo giusto spazio, qui l’impressione era quella di voler affermare contemporaneamente due concetti che si contraddicono a vicenda. Bellissimo il messaggio antispecista, l’interrogarsi sulla presunta neutralità della scienza, ma è contraddittorio poi demonizzare il progresso che consente nella pratica l’antispecismo. Se il batterio dell’escherichia coli non fosse stato modificato geneticamente affinché producesse insulina identica a quella umana, dovremmo ancora estrarla dal pancreas degli animali, con tutto ciò che questa pratica comporterebbe. E se il meno indispensabile acido ialuronico non venisse sintetizzato in laboratorio, allora dovremmo ancora estrarlo dalle creste di gallo. Per moltissime specie il progresso nelle biotecnologie ha significato salvezza da morte atroce (detto questo, lungi da me affermare che gli ambienti accademico e farmaceutico siano degli Eden senza peccato, ma a ciascuno il suo). Il messaggio di fondo che non si debba giocare a fare Dio mi è parso stridente semplicemente perché è dalla notte dei tempi che l’umanità modifica il mondo intorno a sé e ogni singola cosa che esiste ed è possibile che esista nell’universo è naturale, inclusa la nostra capacità di influenzare il mondo che ci circonda.

A parte questo, che è l’aspetto che ho trovato dissonante, ho trovato significativa il punto di vista di Mira, una bambina che considera Alba sua sorella, incondizionatamente dal fatto che sia adottata, abbia i canini retrattili e gli istinti di una tigre. Per me è stato il modo più efficace di fare passare il messaggio, perché attraverso gli occhi di una persona giovane e ancora priva di sovrastrutture dovute alle convenzioni sociali è molto più semplice trovare i punti in comune invece delle differenze che ci dividono. La semplicità del suo amore per la sorella, la linearità con cui pensa a lei alla fine è il vero cuore del messaggio.

In conclusione, Krithi K. ha l’enorme pregio di essere un romanzo che si presta al dibattito. Si vede che è un libro che è andato in stampa solo dopo tantissimo lavoro: la prosa cesellata e lo stile raffinato fanno capire benissimo che non si tratta di un libro andato in stampa senza un editing attento e una costante limatura da parte dell’autrice. 

Fonti



mercoledì 17 luglio 2024

Il Famiglio

  • Titolo: Il Famiglio
  • Titolo originale: The Familiar
  • Autrice: Leigh Bardugo
  • Traduttrice: Roberta Verde
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788804787204
  • Casa editrice: Mondadori
Trama


In una Madrid diventata da poco capitale del Regno e pervasa dalla furia controriformistica dell'Inquisizione, la giovane Luzia Cotado, conversa orfana di entrambi i genitori, cerca di sopravvivere come meglio può, nascondendo a tutti le sue origini e, soprattutto, la sua capacità di compiere milagritos, piccole magie. Un giorno, però, la signora della casa presso la quale presta servizio si accorge del suo dono e di lì in poi la obbliga a farne sfoggio davanti ai suoi ospiti, nel patetico e disperato tentativo di migliorare la posizione sociale della sua famiglia ormai decaduta. Ma quello che inizia come un semplice divertimento per nobili fiacchi e annoiati prende ben presto una piega pericolosa perché Luzia attira l'attenzione di Antonio Pérez, ex segretario ora in disgrazia di Filippo II. Per riconquistare il favore del re, ancora provato dalla sconfitta della sua armada, Pérez decide di indire un torneo per trovare un campione che diventi l'arma decisiva nella guerra estenuante contro la regina eretica d'Inghilterra. Determinata a cogliere l'unica possibilità che la vita sembra volerle offrire per migliorare la sua condizione, Luzia si immerge in un mondo popolato da veggenti e alchimisti, bambine sante e imbroglioni, dove i confini tra magia, scienza e inganno sono tanto labili quanto incerti. Con il crescere della sua notorietà, però, aumenta di pari passo il rischio che i suoi segreti vengano scoperti. Per non finire nella morsa dell'Inquisizione, la giovane conversa dovrà quindi agire d'astuzia, accettando persino l'aiuto di un uomo misterioso temuto da tutti, Guillén Santángel, a sua volta custode di verità che potrebbero rivelarsi letali per entrambi. Nel "Famiglio", Leigh Bardugo tesse una narrazione dove al racconto storico si intrecciano il realismo magico e una storia d'amore emozionante.

Recensione e commento 

Se date un’occhiata su questo blog scoprirete che per Leigh Bardugo ho scritto le recensioni più entusiastiche e quelle più avvelenate. È un’autrice che stimo tantissimo come persona (non senza una certa dose di bias di proiezione da parte mia) ma che come scrittrice ha saputo deludermi varie volte.

In questo scenario dicotomico, dove si colloca Il Famiglio? Quando ho iniziato la lettura, assieme a Rossella e Giorgia, siamo state subito concordi che con pochissime parole Bardugo fosse riuscita a catapultarci nella Spagna del Seicento, ho trovato la sua prosa veramente magistrale, con un grande dono della sintesi e che per questo motivo non aveva bisogno di dilungarsi in descrizioni e digressioni prolisse per evocare immagini chiarissime. Un’altra cosa che ho notato immediatamente è stato l’uso della focalizzazione interna mobile con narratore onnisciente, sintomo di una penna ormai matura che non ha bisogno di scrivere attraverso i tanto in voga capitoli dal punto di vista di una o l’altro per farci sapere cosa provano.

Eppure, più andavamo avanti con la lettura e più ci sembrava puramente un esercizio di maniera, perché la trama in sé non valeva la pena: la storia della ragazza dall’aspetto ordinario con poteri straordinari che vuole di più dalla vita e che viene notata da un essere immortale Bardugo l’ha già scritta. E allo stesso modo di questo libro, anche la serie del Grishaverse parla delle persecuzioni degli Ebrei in Europa. Per cui capirete che più andavo avanti più mi sembrava un autoplagio e perdevo interesse*. Infatti, per quanto la prosa sia complessa e adatta a un publico adulto, la trama è degna del più trito degli young adult perché lo studio è limitato all’epoca storica e non si estende a intreccio e personaggi. I buchi di trama sono tantissimi e sono tutti finalizzati a fare in modo che l’interesse amoroso possa arrivare a compimento (anche se personalmente non ho sentito nessuna chimica tra la protagonista e il suo love interest). 

Se devo citarne alcuni, mi viene in mente per esempio che Luzia lavora per una famiglia di nobili che però non sono sufficientemente abbienti da avere una servitù assortita, possono permettersi solo una cuoca mediocre e una sguattera (Luzia, appunto), la quale dice di non potersene andare. In tutto il romanzo non mi era chiaro perché non potesse, non veniva dato un motivo credibile: se voleva guadagnare di più perché non cercare un altro lavoro presso un’altra famiglia? Inoltre, Luzia ha dei poteri magici che le consentono di fare varie cose, fra cui moltiplicare gli oggetti. Non è in grado di moltiplicare denaro o pietre preziose, ma allora perché non moltiplicare cose come, che ne so, pomodori e venderli per ricavare più soldi? Perché utilizzare questo potere solo per gli altri e non per sé stessa, dato che veniva detto costantemente che volesse di più dalla vita che morire di fatica per il lavoro? Mi è sembrato che si tentasse costantemente di farla sembrare più miserabile di quanto fosse necessario solo perché farla partire da una condizione di estremo svantaggio ci avrebbe fatto tifare di più per lei, ma per quanto mi riguarda non è successo proprio perché non trovavo mai credibile quello che diceva. 

In più, siamo nell’epoca d’oro dell’Inquisizione Spagnola, quindi un momento di grande paura per persone come la nostra Luzia (e non solo, dato che agli inquisitori bastava una scusa qualsiasi per perseguitare chiunque gli facesse comodo), che non solo ha dei poteri magici, ma è anche una giudaizzante. Ebbene, in questo clima in cui dovrebbe regnare il terrore di essere scoperta, Luzia usa i suoi poteri per qualsiasi cosa, anche per alleggerire un secchio pieno o rammendare un vestito, moltiplicando sempre di più il rischio di essere scoperta e una volta che questo avviene, si scopre che esiste un torneo che è fondamentalmente una gara di magia che però deve essere mascherata da miracolo cristiano . Insomma, indicono una gara di stregoneria durante il periodo dell’Inquisizione e più leggevo più mi sembrava tutto tirato per i capelli. 

Anche la questione dei poteri è trattata in base a come fa comodo nella situazione, perché talvolta viene detto che Luzia è potente potentissima, ma poi a volte non riesce a scappare da una prigione da sola e aspetta che arrivi il principino a salvarla, talvolta riesce a riportare in vita le persone dalla cenere. Non ha un potere raccontato in modo organico e coerente, è tutto sempre funzionale a cosa fa comodo per l’interesse amoroso e a quello si sacrifica tutta la verosimiglianza. 

Il finale è solo l’ultima in ordine cronologico delle cose che non hanno senso. Non vi faccio spoiler nel dettaglio, vi dico solo che il sistema magico ci ha spiegato delle cose che però qui non hanno riscontro e non c’è stato uno scioglimento che invece avrebbe dovuto esserci. 

In conclusione, non sentivo l’esigenza di questo libro di Bardugo, manca totalmente il ritmo e manca proprio un movente narrativo credibile. L’autrice ha fatto il compitino. Un vero peccato che non avesse una storia adatta alla prosa con cui l’ha raccontata e temo che ormai non sia più vero che di suo leggerei anche la lista della spesa.

 *"Grisha" è uno slur in russo per le persone ebree e tutta la serie del Grishaverse è una riscrittura in chiave fantasy delle persecuzioni nell’Europa dell’Est e in quella continentale.

giovedì 11 luglio 2024

Yellowface

  • Titolo: Yellowface
  • Titolo originale: Yellowface
  • Autrice: Rebecca F. Kuang
  • Traduttrice: Giovanna Scocchera
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788804777533
  • Casa editrice: Mondadori
Trama


Che male può fare uno pseudonimo? Juniper Song ha scritto un libro di enorme successo. Però forse non è esattamente chi vuole far credere di essere. June Hayward e Athena Liu, giovani scrittrici, sembrano destinate a carriere parallele: si sono laureate insieme, hanno esordito insieme. Solo che Athena è subito diventata una star mentre di June non si è accorto nessuno. Quando assiste alla morte di Athena in uno strano incidente, June ruba il romanzo che l'amica aveva appena finito di scrivere ma di cui ancora nessuno sa nulla, e decide di pubblicarlo come fosse suo, rielaborato quel tanto che basta. La storia, incentrata sul misconosciuto contributo dei cinesi allo sforzo bellico inglese durante la Prima guerra mondiale, merita comunque di essere raccontata. L'importante è che nessuno scopra la verità. Quando però qualcosa comincia a trapelare, June deve decidere fino a che punto è disposta a spingersi pur di mantenere il proprio segreto. Un romanzo spassosamente tagliente che parla di diversità, razzismi, privilegi e appropriazione culturale. E dei limiti che non si dovrebbero mai superare.


 Recensione e commento

Vi ricordate di quando nel 2021 era venuto fuori lo scandalo dello sfruttamento dei lavoratori da parte di Grafica Veneta? C’era stato un piccolo terremoto in tutto il settore dei social media che parlavano di libri, ma poi non se n’è più saputo nulla. O sbaglio?

Yellowface parla di questo: di come il mondo dell’editoria sia ingiustamente romanticizzato ma sia sotto sotto pieno di criticità dettate dal consumismo più becero che vengono giustificate con la storiella della libertà artistica, panacea di tutti i mali. Questo romanzo è arrivato nella mia vita nel momento perfetto, quello in cui mi sentivo totalmente disillusa e disinnamorata della letteratura, che pensavo avrebbe salvato il mondo e invece è guidata dagli stessi dogmi del fast fashion. 

Nell’ambiente editoriale, che da fuori viene percepito come idilliaco, ci troviamo davanti June, una protagonista opinabile (ne parliamo dopo) laureata in una delle migliori università statunitensi con delle pubblicazioni già all’attivo, ma che non è mai riuscita a sfondare veramente. La sua frustrazione alimenta l’invidia verso Athena, un’autrice che invece ce l’ha fatta e sforna solo best seller. Le cose cambiano nel momento in cui Athena muore tragicamente e June riesce a mettere le mani sulla bozza di un manoscritto che racconta la storia prima dei soldati e poi dei lavoratori cinesi e del contributo che hanno dato agli Stati Uniti. Ora seguitemi, perché c’è una matassa da sbrogliare: June spaccia il manoscritto come proprio, ci lavora colmando i vuoti e cambiando delle determinate scene. Questa è la narrazione lineare dei fatti, ma poiché il libro è interamente raccontato dal suo punto di vista assistiamo a tutte le giustificazioni che accampa per farci sapere che no, non ha plagiato nulla, sarebbe stato un peccato che un libro del genere non vedesse mai la luce e che comunque è tanto suo quanto di Athena perché ci hanno equamente lavorato dato che lei ha studiato tutto sull’argomento. È la pallina sul piano inclinato che diventa impossibile da fermare e vediamo June fare esattamente il contrario di quello che diceva Ursula K. Le Guin. Secondo Le Guin scrivere significava mentire per raccontare la verità: June, invece, riesce a mentire anche quando dice la verità. Riesce sempre a manipolare i fatti a suo favore  (almeno nella sua testa) e non è mai credibile, per esempio cambia il suo nome in “Juniper Song”, che è effettivamente il suo secondo nome, datole da sua madre come reminiscenza di una fase hippy, ma ciò fa sì che il pubblico la percepisca come autrice di discendenza asiatica e inevitabilmente si sentirà preso in giro quando scoprirà che non è così (tipo quando scopri che il “formaggio grattugiato senza lattosio” è lo stesso identico formaggio che viene venduto a un euro un meno perché dopo un tot di stagionatura il lattosio decade naturalmente. Il marketing non ha mentito scrivendo "senza lattosio", ma ha fatto comunque credere al consumatore qualcosa di sbagliato). 

Eppure, non è solo colpa di June, perché per quanto quello che commette sia moralmente sbagliato (e spesso anche illegale) sono numerose le occasioni in cui potrebbe essere fermata. Ci sono dei problemi strutturali che esulano dall’esperienza di June, a cominciare dal fatto che spesso editor e correttori di bozze non sempre hanno la preparazione sufficiente per mettere le mani su determinate storie. I tagli al manoscritto di Athena sono indiscriminati e vanno spesso a toccare delle scene chiave e importanti per la categoria presa in esame, oppure vengono aggiunte delle dinamiche che nella cifra totale del libro fanno sugarcoating nello stesso modo in cui spesso le storie che raccontano la Shoah vanno a finire a tarallucci e vino perché l’americano buono di turno arriva a salvare lo sfortunato ebreo prima che cada nelle mani dei nazisti. Il meccanismo che viene messo in atto è esattamente quello, tutto finalizzato a non fare sentire in colpa il pubblico. Inoltre, June rifiuta la sensitivity reader, che sarebbe una persona appartenente alla categoria di cui si parla che avrebbe il compito di trovare un eventuale sguardo razzista (anche involontario) nella rappresentazione. Ho notato che in Italia il sensitivity reader viene percepito come “un non voler offendere nessuno”, quando in realtà il suo compito sarebbe quello di assicurarsi che la storia sia credibile (mi è capitato di leggere storie con personaggi gender-fluid che non avevano una rappresentazione offensiva: avevano una rappresentazione che semplicemente non aveva senso e non stava in piedi) per cui mentre June ci racconta tutto il processo di editing, dei tagli, delle aggiunte e dei cambi, io mi mettevo le mani in testa sapendo che sarebbe stata una catastrofe, perché autrice-ladra e editor possono essersi informate sui fatti storici in sé, ma non sul modo corretto di raccontarli, spogliandosi della visione occidentale. E infatti, quando finalmente il libro esce, per quanto sia stato un enorme successo editoriale, riceve esattamente le stesse critiche che avrei mosso io se avessi davvero letto il romanzo pubblicato da June. Il processo di editing tratta il lettore implicito di June come uno smidollato incapace di informarsi e per il quale il messaggio deve essere predigerito. Il manoscritto di Athena prevedeva che chi leggesse facesse uno sforzo cognitivo per capire al meglio la storia, mentre l’obiettivo adesso viene cambiato e per allargare il pubblico (ergo, vendere di più) il libro viene semplificato e spiegato. 

Tutti i tagli indiscriminati al manoscritto senza un’alzata di sopracciglia da parte di June dimostrato la sua totale mancanza di attaccamento alla storia che racconta. Il suo flusso di coscienza quando si parla della pubblicazione di un grande best seller si concentra su quanto potrà guadagnarci, sul prestigio sociale, sullo scalare delle gerarchie, sul domandarsi se verrà prodotto un film e sul fare parte di un'élite. La questione del profitto è comprensibile nella misura in cui si considera la scrittura un lavoro come tutti gli altri, con il quale giustamente ci si può mantenere, e fin qui va tutto bene, ma personalmente i miei genitori mi hanno insegnato che quando si viene pagati per qualcosa, allora la si deve fare bene, e June questo non lo fa. Al contempo il clima di pressioni sociali per continuare a pubblicare, per produrre sempre di più e non scendere dalla cresta dell’onda scoperchia un vaso di Pandora che mostra tutte le ipocrisie di un ambiente che dall’esterno sembra vergine ma che all’interno presenta ogni singola criticità del consumismo. In editoria, come in qualsiasi altro ambito, conta solo vendere, a qualsiasi costo: si salta su qualsiasi treno, senza limiti morali (se vi ricorda la pubblicazione del libro di Vannacci da parte di Piemme immagino che non sia un caso). È un ambiente in cui la verità non ha nessuna importanza e spesso si banchetta sui cadaveri ancora fumanti, infatti, quando la questione del plagio viene fuori (perché inevitabilmente viene fuori) si scatena il putiferio sui canali social dove blogger, tiktoker, bookstagrammer si scatenano, ma sono anche gli stessi editori a mungere la mucca finché sanguina pubblicando nella stessa linea editoriale libri che affermano cose diametralmente opposte. 

Yellowface è un libro che parla di persone problematiche, perché per quanto sia raccontato dal punto di vista di June, che copia un libro e ruba letteralmente una storia, i problemi del settore non sono certo iniziati con lei ed è impossibile risalire a chi sia il solo e unico responsabile. Gli editori non sono esenti da bias cognitivi culturali e non solo propinano stereotipi nei libri che pubblicano, ma trattano anche scrittori e scrittrici di categorie marginalizzate come dei token da sfoderare quando c’è da appuntarsi sul petto la medaglia della diversità. Scrittori e scrittrici di etnie diverse si riducono a delle quote che non devono superare una certa soglia e che non possono scrivere di quello che vogliono, ma devono parlare esclusivamente della loro marginalizzazione, anche quando non esiste. Kuang, in sostanza, ci racconta una storia in cui ci sono solo colpevoli: June è la prima colpevole perché ruba il lavoro di un’autrice morta e si giustifica in ogni modo possibile. Eppure, nonostante sia una narratrice inattendibile che si contraddice spesso, ci rende suoi complici facendoci tifare per lei. La protagonista sbaglia, questo è oggettivo, ma poi arrivano le shitstorm, le minacce di morte, le illazioni, e alla fine tutta questa sete di sangue del pubblico non porta a nulla perché, di nuovo, la verità non conta: è lo scandalo che fa salire le vendite e quindi ben venga, nella sostanza nulla cambia. Anche questo è qualcosa che abbiamo visto tantissime volte, nei miei cinque anni di blog ho assistito a decine di blogger che copiavano le recensioni e davanti all’evidenza non hanno mai porto scuse e hanno continuato in modo totalmente indisturbato. Dopo un po’ si smette di parlarne per passare a un altro argomento più in voga che faccia trend in quel momento e non ci sono mai delle reali conseguenze per i colpevoli. Questo mi fa rabbia e Kuang capisce e veicola questo sentimento, mi prende per mano e mi mostra che a nessuno interessa davvero, perché finché l’editore può fare soldi è disposto a pubblicare anche i libri inchiesta che gli danno contro e se pensate che sia paradossale, pensate a tutte le volte che, durante la vostra fase adolescenziale punk andavate a comprare le magliette con il simbolo dell’anarchia da colossi come H&M: la pubblicità negativa non esiste e il fatto stesso che un libro che critica così aspramente il mondo editoriale sia stato pubblicato in Italia da Mondadori penso che la dica lunga.

Persino Athena, la vera autrice del romanzo che June ruba, è a sua volta sia vittima che carnefice. Lei è una che ce l’ha fatta, è arrivata in cima alla montagna, ma al prezzo di essersi piegata alle regole del gioco. Lei sapeva di essere un token per il suo editore e decide di prestarsi al sistema. Per quanto fosse un’autrice abile oggettivamente, è sempre stata privilegiata per la sua condizione economica, per cui spesso quando racconta storie di marginalizzazione non sta davvero parlando di sé, perché non ha mai vissuto nulla di realmente degno di essere raccontato. Per cui Athena fa una cosa agghiacciante (il modo in cui lo racconta Kuang mi ha fatto accapponare la pelle) e lei stessa fa appropriazione esperienzale, prendendo le vicende traumatiche di chi conosce e trasformandole in parole su carta per ricevere premi e produrre romanzi. Non si limita a raccontare gli eventi, ma entra nelle vite delle persone, anche quella della protagonista, entra in empatia con loro, si finge amica affinché le raccontino tutte le loro emozioni e che lei possa avere tutti gli elementi per scrivere una storia ricca di shock factor e impatto emotivo, tanto il prezzo di quel dolore non lo paga lei.

Non è vero che in Yellowface bene e male si mescolano: la linea tra bene e male è ben definita, quello che è labile è il confine tra vittime e carnefici, perché in momenti diversi si può essere entrambe le cose. Per quanto mi riguarda, questo romanzo è stato dirompente e sotto certi aspetti mi ha dato il colpo di grazia, eppure ne avevo bisogno, perché sono abbastanza stanca di vedere il mondo dei social media dedicato ai libri popolato da persone che pensano di essere migliori degli altri, quando alla fine la cifra del discorso è spingere in gola ai follower libri di cui non hanno bisogno solo perché in omaggio danno la shopper. 

Yellowface racconta di un mondo composto da persone incapaci di fare un passo indietro e punta inesorabilmente il dito. Anche contro di noi e anche contro di me.

mercoledì 3 luglio 2024

La Stanza dei Segreti

  • Titolo: La Stanza dei Segreti
  • Titolo originale: The Widow Spy
  • Autrice: Megan Campisi
  • Traduttrice: Francesca Toticchi
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788842935827
  • Casa editrice: Nord
Trama


La guerra civile infuria e, per aggiudicarsi la vittoria, servono armi più potenti di cannoni e fucili. Servono informazioni. Per Kate Warner è l'occasione che aspettava da tempo, fin da quando è stata assunta dalla leggendaria Pinkerton National Detective Agency. Kate è l'unica agente donna e lotta da anni per conquistarsi il rispetto dei colleghi, che la considerano troppo emotiva per le operazioni sul campo. Ma adesso, nell'agosto del 1861, è lo stesso Allan Pinkerton a sceglierla per una missione delicatissima. Nessun uomo infatti potrebbe far collaborare Rose O'Neal Greenhow, una vedova sudista che è stata trovata in possesso di un messaggio cifrato che, se decrittato, potrebbe porre termine a quella carneficina. Ricca, viziata e razzista, la donna rappresenta tutto ciò che Kate disprezza. Lei che è nata povera e che ha sempre potuto contare solo su se stessa, non può sopportare l'arroganza con cui la vedova Greenhow si ostina a proteggere un sistema basato sul privilegio e la sopraffazione. Eppure, per riuscire a conquistarsi la sua fiducia, Kate deve imparare a mettersi nei suoi panni, scoprendo così una persona forte e determinata, che combatte per ciò che ritiene giusto. Solo allora Kate si rende conto che una donna del genere – così diversa eppure così simile a lei – non può essere piegata. E che tutte e due sono pedine di un gioco dall’esito imprevedibile…


Recensione e commento

Il primo libro di Megan Campisi, La Custode dei Peccati, mi aveva chiamata come solo i libri che sono destinati a noi sanno chiamarci. Eppure, non era stato amore a prima vista, solo alla seconda lettura mi ero resa conto di quanto l’autrice fosse stata bravissima a calarsi nella psicologia di una donna analfabeta di una ucronica epoca vittoriana. Per cui ero sicura che se la mia prima collaborazione con Editrice Nord (che ringrazio tantissimo per la copia omaggio) fosse stata questa, allora sarebbe andata benissimo. Non mi sono sbagliata.

La Stanza dei Segreti, invece, non è un’ucronia, ma uno storico vero e proprio che si ripropone di colmare con la finzione quello di cui la Storia non ci ha lasciato testimonianza. Campisi ci racconta di Kate Warne, una donna di origine irlandese emigrata negli Stati Uniti che si occupa di fare la detective per gli abolizionisti della schiavitù dei neri. Con una brevità scevra di prolissità, il che è di per sé indice di qualità quando si parla di letteratura, vediamo l’arco di trasformazione di una protagonista che vive mille archetipi femminili diversi e ho trovato che la bravura dell’autrice sia consistita soprattutto in questo. Perché non abbiamo un’eroina che è perfetta in tutto e per tutto, ma una persona nella quale coesistono idee giuste e sbagliate che si contraddicono a vicenda. Da un lato si rende conto delle discriminazioni che vivono le donne del suo periodo storico, a cui viene richiesto di aderire a degli standard molto stringenti, ma per quanto lei stessa pensi che siano i canoni sociali a doversi adattare alle persone e non viceversa, spesso si ritrova a giudicare male le altre donne, specialmente quando combattono per cause opposte alla sua. Non riesce a uscire dalla visione in cui si cade spesso quando si riesce ad affrancarsi, ovvero quello di pensare che tutte le persone abbiano gli stessi strumenti e che chiunque possa fare lo stesso. E anche se lei sa che le condizioni di partenza cambino molto, spesso questo ragionamento corretto si ferma al concetto della classe sociale e non riesce ad abbracciare anche il genere. Non all’inizio, almeno, perché il percorso di Kate sarà incentrato proprio sull’imparare a fare le cose nel modo giusto, a non usare metodi notoriamente “maschili”, ovvero usare la violenza appena non si riesce a ottenere quello che si vuole e vedere il mondo sempre a parti contrapposte. Kate non è perfetta e non lo sarà nemmeno alla fine, quando, pur avendo imparato a considerare le sue avversarie come esseri umani che sono approdate a quel punto della loro vita tramite esperienze segnanti tanto quanto lei, comunque non riesce ad abbracciare tesi troppo pacifiste.

 
Penso che in questo consista la maggior parte dell’abilità di Campisi, perché per quanto le siano ben chiari in testa gli archetipi, riesce comunque ad amalgamarli, a farli coesistere nella stessa persona creando contraddizioni tra pensieri consci e inconsci. Kate, ad esempio, ha un aspetto ordinario, il che le torna utile nel suo mestiere di spia e agente sotto copertura, dato che le consente di passare inosservata. Eppure, per quanto abbia altre doti pregevolissime, non manca l’invidia costante verso la bellezza canonica per quanto lei dica a sé stessa che non ha importanza e che non le sarebbe utile. 

Il romanzo è stato sorprendentemente semplice da leggere e riesce a calare nell’atmosfera della seconda metà ottocentesca negli Stati Uniti senza dilungarsi in spiegazioni, anzi, qui si vede tutta la formazione teatrale dell’autrice che rompe molto spesso la quarta parete e usa tantissimi espedienti che le consentono di mandare avanti la storia in modo drammaturgicamente ineccepibile e ritmato. Non c’è nulla da spiegare: gli eventi vengono vissuti e basta, senza che ci sia un eccessivo bisogno di descrizioni. 

Inoltre, ho trovato la scelta del soggetto decisamente interessante, dato che invece di affrontare figure storiche sulle quali è stato già detto tutto e il contrario di tutto, Campisi ci delizia con una protagonista di cui si sa solo che è esistita veramente, per cui ha ampio spazio di manovra per inventare senza che la psicologia che attribuisce a Kate contraddica altri documenti, perché, appunto, non ce ne sono, così come sono pochissime le tracce lasciate dai secondari.

Insomma, la mia opinione di questa autrice si riconferma positivissima, perché riesce a raccontare storie originalissime, per le quali serve uno studio matto e disperatissimo, senza mai fare sfoggio di cultura e senza rallentare mai il ritmo. Se amate i romanzi storici, questo non potete farvelo scappare!

Gilded, Cursed

Titolo: Gilded, Cursed Titolo originale: Gilded Autrice: Marissa Meyer Traduttrice:  Maria Carla Dallavalle Lingua originale: inglese Codic...