venerdì 22 agosto 2025

Not Quite Dead Yet

  • Titolo: Not Quite Dead Yet
  • Titolo originale: Not Quite Dead Yet
  • Autrice: Holly Jackson
  • Traduttore: Paolo Maria Bonora
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788817191081
  • Casa editrice: Rizzoli
Trama

Tra sette giorni Jet Mason sarà morta. Jet ha ventisette anni e sta ancora aspettando che la sua vita decolli. Il suo mantra è “lo farò più tardi”, pensando di avere tutto il tempo del mondo. Fino alla notte di Halloween, quando viene aggredita in casa sua da un intruso. L’attacco le procura un forte trauma cranico e il medico è certo che entro una settimana la lesione scatenerà un aneurisma mortale. Jet non ha mai pensato di avere dei nemici, ma ora vede tutti sotto una nuova luce: la sua famiglia, la sua ex migliore amica, ora sua cognata, il suo ex fidanzato possessivo… Le restano sette giorni, solo sette giorni per scoprire chi l’ha aggredita, e a mano a mano che le sue condizioni peggiorano, Jet si rende conto che l’unico di cui si possa fidare è il suo amico d’infanzia Billy. Ma questa assurda storia ha anche un risvolto positivo: per la prima volta nella sua vita è determinata a portare a termine qualcosa. Jet risolverà il suo stesso omicidio.


Recensione e commento

L’ultima fatica di Holly Jackson si intitola Not Quite dead Yet ed è un thriller che negli esiti si discosta un pochino sia dalla sua produzione precedente, sia da libri dello stesso genere.

Cominciamo col dire che non è una lettura priva di difetti: il primo capitolo ha tratti quasi dilettanteschi nel modo di fornire le informazioni, c’è un po’ di infodump nel presentare il cast di personaggi che si susseguono a rotta di collo uno dopo l’altro con tanto di background personale. Inoltre, alcuni di loro, protagonista inclusa, hanno nomi molto simili per grafia, lunghezza e suono, il che è qualcosa che si tende a evitare quando si scrive un romanzo, proprio per non correre il rischio di confondere, ma dando a Jackson il beneficio del dubbio ho pensato che potesse essere un indizio (un potenziale killer a cui è stato detto di uccidere una persona e invece si sbaglia e ne uccide un’altra, per esempio). A lettura finita mi duole affermare che non è così, era semplicemente un errore di editing (per quando non grosso come quello avvenuto con Il Ritorno di Rachel Price).

Per quanto riguarda la fretta nella stesura del primo capitolo, è un elemento perdonabile nell’ottica complessiva del romanzo, perché per come è stato concepito punta a darci un’infarinatura per poi partire a cannone nel secondo capitolo, srotolando una trama in cui, letteralmente, non c’è un minuto da perdere. Anche grazie al ritmo incalzante e all’immersione che riesce a creare i problemi di cui parlavo prima si vedono meno, perché si notano a posteriori, a libro chiuso, ma non si ha la freddezza di guardarli mentre si ha tutto il coinvolgimento emotivo che viene messo in campo.

Infatti, come sempre, Jackson è bravissima a creare tensione e farci sospettare di chiunque, per quanto a un certo punto il cerchio si stringa e diventi evidente chi sia il colpevole. Sotto questo aspetto, posso dire di aver trovato tutto relativamente verosimile, nell’ottica della finzione letteraria, ma non sono stata pienamente soddisfatta dal finale, che ha l’indiscutibile pregio di mantenere le promesse fino alla fine, ma è comunque mancata una spanna di coraggio in più per portarlo ancora oltre. 

Poi, trovo sempre molto apprezzabile il modo di Jackson di caratterizzare le sue protagoniste e gli altri personaggi: Jet è una ragazza di ventisette anni divisa a metà tra la sensazione di non aver mai concluso nulla nella vita e quella di avere ancora tutto il tempo del mondo per rimediare. Nessuna delle protagoniste create dall’autrice fino a questo momento è intercambiabile con le altre, ma forse un pochino lo è Billy che qui mi è sembrato molto simile a Ravi, il comprimario di Come uccidono le brave ragazze, anche se devo dire che amo alla follia che l’autrice si spenda tanto per creare personaggi maschili senza un’ombra di tossicità. 

Grazie al ritmo incalzante, ai temi trattati, come il conflitto generazionale e la paura tutta millennial di non aver fatto nulla della propria vita, Jackson riesce nell’impresa di creare un libro da cui è impossibile staccarsi, nonostante i piccoli difetti che passano in secondo piano proprio grazie alla sua scrittura immersiva ed emotiva.

mercoledì 30 luglio 2025

Gli straordinari fallimenti di Leopold Berry

  • Titolo: Gli straordinari Fallimenti di Leopold Berry
  • Titolo originale: The extraordinary disappointments of Leopold Berry
  • Autore: Ransom Riggs
  • Traduttrice: Linda Martini
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788817189088
  • Casa editrice: Rizzoli
Trama


A Los Angeles si vedono molte cose strane. Eppure le visioni di Leopold Berry, nerd diciassettenne orfano di madre e con un padre con cui non riesce a parlare, sono molto, molto più strane: un procione con la coda in fiamme, un uomo che infila un dente nel parchimetro... Ogni allucinazione sembra rimandare alla sua grande ossessione, "Le avventure di Max a Sunderworld", una serie tv che guardava da bambino. Ma quelle stranezze annunciano una verità molto più grande e spaventosa di un vecchio programma. Perché Sunderworld non solo è reale. Ma è anche in grave pericolo. Dall'autore della serie culto "Miss Peregrine. La casa dei ragazzi Speciali".


Recensione e commento

In genere, durante l’infanzia, ma anche dopo, c’è un periodo in cui a chi ha talenti artistici viene rinfacciato il fatto di non avere capacità immediatamente spendibili, come le abilità tecniche. Quando si è bravi in educazione artistica o negli sport ci si sente spesso dire “pensa a studiare la Storia e la Geografia, quelle sono cose utili!”.

Gli Straordinari Fallimenti di Leopold Berry parla di questo: di come il mondo degli adulti schiacci i nostri sogni, la nostra personalità, per farci diventare ingranaggi di un sistema che non premia l’unicità, ma il conformismo. Ransom Riggs ha, non serve nemmeno dirlo, una penna matura al punto che riesce a farci catapultare in una storia apparentemente già vista e ampiamente esplorata perché ribadisce tutti i cliché di questo tipo di narrativa per poi scardinarli uno dopo l’altro. Infatti, il romanzo si apre con Larry, orfano di madre, che vive con un padre castrante, l’equivalente moderno della matrigna cattiva delle fiabe, che non fa altro che dargli del perdente solo perché non ha il tipo di abilità osservabili a scuola. Eppure, guardandoli da fuori, è proprio il padre del protagonista a essere un perdente: è un uomo per cui il denaro è l’unico e solo valore, niente ha valore se non viene permutato in denaro. Valuta il successo nell’ottica del potere e di come questo lo collochi in una posizione sopraelevata, ma nel farlo si perde tante cose belle della vita, incluso il suo rapporto con Leopold, che lui vive non come un individuo a sé, che deve conoscere e amare per chi è, ma come un’estensione di sé e che pertanto non può fare altro che deluderlo, dato i figli non sono a immagine e somiglianza dei genitori. 

Il processo di affrancamento di Larry sarà necessario, ma doloroso, si tratterà di una crescita che per un periodo dovrà fare in solitaria. Larry è un vincente non per il potere che acquisisce, ma perché nonostante i modelli che gli sono stati propinati riesce comunque a fiorire e diventare chi è. In questo consiste il vero successo, non nell’applicarsi delle etichette e deformarsi per aderire a esse.

I trope ribaditi uno per uno per poi essere scardinati, dicevo. Abbiamo la matrigna cattiva, che qui è invece il padre biologico, poi abbiamo quello del prescelto, perché Leopold, a poche pagine dall’inizio, riesce a entrare in una Los Angeles parallela non visibile a chi non ha poteri magici. A questo punto ho pensato “A posto, adesso si scopre che lui è l’eletto e combatte a mani nude una minaccia inaffrontabile per chiunque altro” e lo pensa lui stesso. Invece no, altro ribaltamento, perché Larry anche qui, ancora una volta, crudelmente, è mediocre e si ritrova a fare i conti con la sua mancanza di straordinarietà anche nell’ambito dello straordinario. Ma del resto tutte le sue capacità sono sempre state sminuite, schiacciate sotto il peso delle aspettative sociali di chi non ha mai creduto in lui e non lo ha mai incoraggiato. Il suo viaggio interiore consiste in questo: comprendere nel profondo che i suoi sogni vanno inseguiti anche se non sono come se li era immaginati. Nessuno gli stenderà il tappeto rosso e gli consegnerà le chiavi magiche per aprire le porte che lo porteranno al luogo in cui appartiene, perché la realtà, per quanto magica, è sempre meno scintillante e patinata delle nostre fantasie. Ma è così che Leopold vince: suo padre lo accusa di essere un perdente, ma lui non perde, lui fallisce ancora e ancora, fallisce di nuovo e fallisce meglio, imparando dai suoi errori e non arrendendosi davanti alle difficoltà, perché la sua abilità consiste nel lavorare sodo per fare parte del luogo a cui sente di appartenere, non nell’essere il Neo di Matrix della situazione.

Lerry cerca di tenere intatta dentro di sé la passione infantile che lo anima e che nei suoi coetanei, anche ragionevolmente, si spegne piano piano per affacciarsi alla vota adulta in modo in disilluso ma ragionevole. Per questo il suo viaggio è quasi (quasi) tutto in solitaria: perché non sempre viene capito anche da chi gli vuole bene ed è sempre stato al suo fianco. La passione, però, per fortuna, può anche essere riaccesa e non tutto è perduto quando si tratta di tenere viva la propria creatività.

In questo romanzo che mescolo lo urban al portal fantasy, Riggs ci regala una storia da cardiopalma, senza mai un tempo morto, emozionate e commovente al tempo stesso, in cui l’ambientazione cittadina si incastra perfettamente con la sua parallela magica: le due Los Angeles sono diverse sul piano fisico, ma molto simili per quanto riguarda la popolazione pittoresca che le occupa e nella ricerca della magia Leopold incontra la realtà, in un posto che custodisce al suo interno Hollywood, il luogo dove i sogni prendono vita, ma che simboleggia anche la finzione, la facciata, l’ipocrisia dietro il luccichio. 

Gli Straordinari Fallimenti di Leopold Berry è un romanzo che ha saputo abbracciare e guarire una piccola parte della mia bambina interiore. È un libro che mi ha fatta sentire compresa e accolta. Si adatta bene a essere letto a qualsiasi età grazie al suo messaggio e alla straordinaria capacità di Ransom Riggs di comunicare efficacemente un messaggio ribaltando tutte le nostre convinzioni narrative.

mercoledì 16 luglio 2025

Quando il mondo dorme - Storie, parole e ferite della Palestina

  • Titolo: Quando il mondo dorme - Storie, parole e ferite della Palestina
  • Autrice: Francesca Albanese
  • Codice ISBN: 9788817195324
  • Casa editrice: Rizzoli
Trama


Dieci storie che si legano alle vite di molte altre, ponendoci le domande a cui è doveroso dare risposta: quali sono le conseguenze dell'occupazione? Dov'è la casa di una persona rifugiata? In che condizioni vive il popolo palestinese? Fino a che punto può arrivare la crudeltà di un genocidio? Domande a cui non possiamo sottrarci, legate a personaggi e luoghi che ci permettono di capire cosa è stata la Palestina fino al 7 ottobre 2023 e cosa è adesso.
«È quando il mondo dorme che si generano i mostri. Di mostri ne abbiamo già parecchi, tra noi. Prima di tutto, la nostra indifferenza.»
Lo spirito di un luogo è fatto dalle persone che lo abitano, dalle storie che si intersecano nelle sue strade. E questo vale in modo particolare per la Palestina, custode di passaggi storici epocali e teatro di una delle più dolorose pagine di storia contemporanea. Francesca Albanese, la Relatrice speciale ONU sul territorio palestinese occupato, una delle persone più competenti e autorevoli sullo status giuridico e sulla situazione dei palestinesi - amata (o odiata) in tutto il mondo per l'integrità e la passione con cui si batte in favore dei diritti di un popolo troppo a lungo vessato - qui ci offre storie che intrecciano informazioni, riflessioni, emozioni e vicende intime. Un viaggio scandito da dieci persone che hanno accompagnato Francesca a comprendere storia, presente e futuro della Palestina. Hind Rajab, morta a sei anni sotto le bombe che hanno distrutto Gaza, ci apre gli occhi su cosa significhi essere bambini in un Paese dove i bambini non hanno un nido che li protegga e che rispetti le loro radici. Abu Hassan ci guida tra i luoghi di fatica e sofferenza ai margini di Gerusalemme; e George, amico stretto, di Gerusalemme ci mostra meraviglia e insensatezze. Alon Confino, grande studioso dell'olocausto, ci aiuta a comprendere i contrasti che possono albergare nel cuore di un ebreo che vede l'apartheid e ne vuole la fine. Ghassan Abu-Sittah, chirurgo arrivato da Londra per entrare nel vivo dell'orrore più inimmaginabile, ci racconta ciò che ha visto; e Malak Mattar, giovane artista che ha fatto il percorso inverso, condivide la storia di chi ha dovuto lasciare Gaza per potersi esprimere o per sopravvivere. E poi Ingrid Jaradat Gassner, Eyal Weizman, Gabor Maté fino a una delle persone più vicine a Francesca nella vita, così come nella ricerca di una consapevolezza capace di tradursi in azione.

Commento 

È difficilissimo parlare di Quando il mondo dorme - Storie, parole e ferite della Palestina, perché è un libro di per sé necessario, intenso e pesato in ogni sua parola. Tentare di riassumerlo non gli renderebbe onore, per cui cercherò di parlarne sulla base dei contenuti.

Cominciamo col dire una cosa: Francesca Albanese è un tesoro nazionale e internazionale. La Relatrice speciale delle Nazioni Unite per la Palestina, infatti, non è solo una giurista, una docente e una studiosa, ma una persona adattissima al ruolo che ricopre non per la sua superiorità intellettuale in merito alla materia di cui si occupa rispetto a noi comuni mortali, quanto perché riesce a usare tutte le sue conoscenze accademiche al servizio di chi ne ha più bisogno e nel farlo non lascia fuori la sua emotività. È questa la cosa che colpisce di più di Albanese: non ricopre il suo ruolo con distacco e scollandosi dalla realtà, ma usando la sua sensibilità al servizio del suo lavoro e, per quanto ciò possa essere un problema nella sua vita personale, che sicuramente ne risente, è anche vero che per un compito così delicato serve una persona che ci tenga davvero. E Albanese ci tiene davvero. 

Il chiaro e dichiarato intento di questo libro, che mescola la saggistica alla narrativa biografica, è quello di calare il diritto internazionale nella vita degli individui facendosi portavoce delle storie piccole e grandi di chi non ha un megafono per poterle raccontare: parte dagli antefatti, per aiutarci a comprendere il perché di determinate azioni o reazioni, racconta di esasperazioni e ingiustizie subite per decenni dal popolo palestinese, di accordi non rispettati, di bacchettate sulle mani mai date. E soprattutto racconta di ferite non curate, da una parte e dall’altra. Perché se da un lato abbiamo il popolo palestinese che sta vivendo sulla sua pelle un genocidio inenarrabile e per il quale, francamente, non c’è più nulla da dire perché abbiamo già visto imagini impensabili anche per un film horror, dall’altro abbiamo il popolo ebraico (non tutto israeliano e non tutto sionista) e il suo trauma generazionale non curato, un dolore che è passato dai sopravvissuti alle generazioni successive e nel rivendicare una sorta di giustizia riparativa che non è mai davvero arrivata ha trasformato la propria tragedia in quella di qualcun altro, come capita spesso in chi subisce abusi. Albanese è un’idealista e non è facile restare idealisti facendo il suo mestiere, a contatto con la violenza, con il dolore e con questioni enormemente più grandi di qualsiasi piccolo essere umano. Non cede mai alla tentazione di spersonalizzare il popolo palestinese ricorrendo esclusivamente a numeri e statistiche, che vengono usati a supporto di storie vere, mai il contrario: i numeri servono a tirare le somme delle tragedie umane che vengono raccontate, ma non si sostituiscono mai a esse, così come lei stessa fa da megafono per le voci altrui, raccontandoci quello che ha imparato lei stessa, senza mai mettersi in una posizione di superiorità né verso chi le ha raccontato le storie che ci riferisce, né verso di noi che le ascoltiamo.

Last night in Gaza,

dell’artista palestinese Malak Mattar

Quando il mondo dorme è un libro necessario non solo nel senso della questione specifica che tratta, quanto perché educa alla complessità. L’autrice ci mostra l’interconnessione di tantissimi fenomeni, di eventi storici e mentalità dure a morire e si spende nell’eroico tentativo di spogliarsi del suo sguardo occidentale eurocentrico. Non parla mai con accondiscendenza, anzi, cerca sempre di mettersi, e farci mettere, dalla parte opposta e vedere che immagine ci viene rimandata, usando, ancora una volta, l’empatia come arma per la risoluzione dei conflitti, invece di viverla come una debolezza. Ciò porta inevitabilmente a criticare il sistema di cui fa parte (che è lo stesso di cui facciamo parte noi): è feroce nel criticare l’Europa che non si prende le sue responsabilità, gli Stati Uniti che appiattiscono la questione trasformandola in una tifoseria da stadio dove bianco e nero si contrappongono (per lei, Trump è un Caligola moderno. Sipario*), l’ONU stessa, per cui lei lavora, che non riesce a farsi rispettare nelle sue decisioni né a inviare dei funzionari che abbiano abbastanza contatto con la realtà e integrità da non assecondare il fenomeno che sono stati chiamati a combattere.

My mother,
di Malak Mattar

Con la semplicità di chi ha fatto del tema di cui parla la propria ragione di vita, Albanese ci spiega, sempre calandole nel contesto e andando dalla storia particolare a quella generale, parole come “apartheid” e “genocidio” e mai e poi mai sminuisce le azioni dei singoli. Parla di come il boicottaggio sia l’arma migliore che abbiamo perché i regimi vanno colpiti al portafoglio per ferirli davvero e ci ricorda che la fine della segregazione in Sudafrica è cominciata proprio così: con i singoli che, una piccola azione alla volta, hanno fatto la differenza nell’opinione pubblica, costringendo la politica a porre fine a un fenomeno radicato. Pensate a quanto siano cambiate le notizie dei telegiornali rispetto al sette ottobre 2023, quando la narrazione era polarizzata, ma successivamente l’ondata di solidarietà verso la Palestina ha costretto persino i notiziari più conservatori a dare spazio anche a chi non è gradito a chi comanda. In questo senso, le parole di Francesca Albanese sono colme di dolore, di stanchezza e lutto, ma anche di speranza e voglia di lottare, perché lei stessa dice che tutti i bambini del mondo meritano le stesse cose che hanno i suoi figli, con la loro spensieratezza e i loro bagni al mare. La dolcezza di questo pensiero è ciò che ci deve spingere a continuare a fare pressione per la pace, senza scoraggiarci o farci distrarre. E se da un lato è vero che i governi non stanno facendo niente è vero anche che stanno dimostrando di non essere lo specchio dei loro cittadini, i quali non dormono più anche per merito di questa donna che è una forza della natura.

Se siete insegnanti, Quando il mondo dorme - Storie, parole e ferite della Palestina è un libro che dovete far leggere nelle vostre classi perché ci educa alla complessità, ad andare alla radice dei problemi e a puntare il dito prima verso i potenti e anche verso di noi, spogliandoci del nostro sguardo privilegiato che è la lente che ci impedisce di vedere con chiarezza. Come si dice dalle parti di Francesca Albanese: facciamo ammuìna.

*Sto editando questa recensione nel giorno in cui gli USA hanno annunciato sanzioni contro di lei a seguito del suo report dove, senza battere ciglio, ha tirato fuori l’agendina con i nomi dei bambini monelli e ha fatto i nomi e i cognomi delle aziende che stanno facendo i soldi sul genocidio. Ineffabili artisti circensi.

mercoledì 9 luglio 2025

Il Viaggio dei Dannati

  • Titolo: Il Viaggio dei Dannati
  • Titolo originale: Voyage of the Damned
  • Autrice: Frances White
  • Traduttrice: Claudia Milani
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788804791645
  • Casa editrice: Mondadori
Trama


Da mille anni il regno di Concordia ha mantenuto la pace tra le sue province. Per celebrare la ricorrenza, l'imperatore organizza un viaggio di dodici giorni con la sua nave fino alla sacra montagna della Dea. A bordo ci sono gli eredi delle dodici province, ognuno dotato di uno speciale e segreto dono magico chiamato Benedizione. Tutti, tranne Ganymedes Piscero, un buffoncello senza arte né parte, un totale fallimento. Quando una dei dodici, la più amata, viene uccisa, gli altri sono tutti sospettati. Bloccato in mezzo al mare, circondato da persone potenti e senza nessuna Benedizione che lo protegga, Ganymedes ha ben poche possibilità di sopravvivere. Ma mentre i cadaveri si accumulano, proprio lui si trova a dover diventare l'eroe che non è nato per essere. Riuscirà a smascherare l'assassino, prima che la nave tocchi le sponde di Concordia? O l'impero come l'ha sempre conosciuto è destinato a crollare?


Recensione e commento

Il Viaggio dei dannati si pone come un romanzo perfetto per essere letto in questo momento di afosa calura estiva perché promette brezza marina e omicidi da risolvere sotto l’ombrellone. Le aspettative sono state in parte rispettate

Le premesse della storia erano ottime, sulla carta si prospettava una trama costellata di personaggi ricchi di diversità, ma a conti fatti ha peccato di tokenismo: ogni persona presente è un manifesto di qualcosa. Abbiamo il protagonista che è un bisessuale sovrappeso, lǝ rappresentate della provincia del Ragno che è agender e asessuale, poi ci sono province guidate da persone con disabilità o malattie croniche. Tutte queste caratteristiche non servono a tratteggiare personaggi definiti, quanto delle macchiette che rischiano di sfociare nello stereotipo. Ganymedes stesso viene ritratto come il bisessuale che si farebbe pure i muri, persino quando la situazione diventa drammatica e e ha da poco subito un lutto gravissimo. Lǝ rappresentante della provincia del Ragno, a cui non è assegnato un genere, invece ha anche la caratteristica dell’ambiguità e dell’inaffidablità. Chiariamoci, non è che le persone agender siano degli angioletti scesi dal paradiso, ma è almeno il terzo libro che leggo in cui il personaggio agender viene associato a caratteristiche di ambiguità morale, un po’ come se una persona non incasellabile socialmente avesse anche dei valori eticamente discutibili. Anche l’infanzia sortisce un po’ lo stesso effetto di appiattimento, perché per quanto Cavalletta sia adorabile e uno dei personaggi che tiene in piedi il libro, i suoi dichiarati sei anni sono più simili ai tre anni delle bambine vere.

L’ambientazione ha qualche difetto, tanto per cominciare non si sente per nulla l’atmosfera marinaresca, tutto il viaggio si svolge su una nave incantata che deve arrivare a una montagna sacra dopo dodici giorni, eppure la storia potrebbe svilupparsi in qualsiasi altro luogo, perché non c’è mai un rollio, né un’ oscillazione della nave o una virata. Questo toglie tantissimo all’esperienza e, unita al fatto che ci sono troppe intrusioni del mondo primario, nominando oggetti moderni come i bar, gli hot dog e il sushi, spesso la sospensione dell’incredulità viene meno. A contribuire a questa sensazione è anche la macchinosità dei dialoghi, che sono spesso utilizzati per dare delle informazioni a noi che leggiamo, ma che in realtà mettono i personaggi nella posizione di parlare di cose che tecnicamente dovrebbero già conoscere. L’impero di Concordia (un po’ è grottesco che un libro ambientato su una nave tiri in ballo il nome “Concordia”) è molto simile a quello di altri libri, tanto che leggendo i primi capitolo, in cui venivano gettate le basi dell’ambientazione, risuonava moltissimo nella mia testa l’ambientazione di Hunger games, con i suoi dodici distretti (Province, nel caso del libro in questione), con un tredicesimo emarginato perché si è ribellato e ciascuno di essi che deve rifornire l’impero centrale di una risorsa ben precisa è molto simile a L’Impero dei Dannati, in cui l’identità di ciascuna provincia viene soffocata fino a reprimere persino le lingue locali e viene applicato il principio del divide ed impera.

Eppure, non è tutto da buttare via, perché nonostante gli intenti seri di rappresentazione, Il Viaggio dei Dannati è un libro scanzonato che riesce a ridere di sé stesso. Nonostante il tema degli omicidi (che per la cronaca fanno immediatamente comprendere chi ne sia artefice), la prosa è ricca di battute e scene divertenti che sfociano nel cringe ed è tutto così esagerato che kitch che fa tutto il giro e diventa gradevole. È quel tipo di lettura trash che non diventa disturbante e durante la lettura si riesce a riderne in misura di gran lunga maggiore rispetto al fastidio proprio perché è tutto esagerato. Anzi, forse è un romanzo che funziona proprio in virtù delle sue imperfezioni e che forse non sarebbe stato efficace nell’ intrattenere se fosse stato perfetto.

Il Viaggio dei Dannati è un libro che parte da ottime premesse ma ha un po’ di problemi di esecuzione dovuti all’inesperienza dell’autrice. Nonostante questo riesce a essere divertente e fare divertire forse proprio perché non si prende mai troppo sul serio. Un libro da ombrellone degno di questo nome.


mercoledì 25 giugno 2025

The Spell Shop

  • Titolo: The Spell Shop
  • Titolo originale: The Spell Shop
  • Autrice: Sarah Beth Durst
  • Traduttrice: Bendetta Gallo
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN:
  • Casa editrice: Rizzoli
Trama


Kiela ha trascorso anni a lavorare in solitudine nella Grande Biblioteca imperiale di Alyssium, in compagnia solo di Caz, un'arguta e apprensiva pianta parlante. A Kiela va bene così, da sempre preferisce i libri alle persone. Ma quando nella capitale scoppia una violenta rivoluzione, è costretta a fuggire con il suo unico tesoro: manuali di antichi incantesimi, custoditi contro ogni legge. Arrivata sulla remota isola di Caltrey, Kiela scopre che il luogo della sua infanzia non è più lo stesso: la magia che un tempo lo nutriva è svanita, lasciando unicorni, gatti alati, spiriti della foresta e le altre creature magiche sempre più deboli. Kiela vuole aiutare, e preparare rimedi magici con un negozio di marmellate come copertura è la soluzione perfetta per guadagnarsi da vivere e salvare l'isola. Tutto sembra andare per il verso giusto, se non fosse per le intrusioni del vicino di casa, Larran, un affascinante allevatore di cavalli mer, deciso a farle abbattere ogni barriera. Kiela è combattuta tra il desiderio di fidarsi e la paura che aprirsi agli altri possa distruggere tutto ciò che ha costruito. Una storia magica e dolcissima per chi crede che il vero incantesimo sia essere pronti a lasciarsi amare.

Recensione e commento

Ma quanto è carina la copertina ceca?
Dopo vari tentativi sono arrivata alla conclusione che il cozy fantasy, e il cozy anche non di genere, è estremamente personale e bisogna rivedersi in qualcosa perché piaccia.

Questo per dire che comprendo ogni singolo motivo per cui diverse persone che conosco affermano che si aspettassero di più da questa lettura o ne sono un po’ deluse, ma io personalmente l’ho amato, perché mi sono rivista in tantissime cose, anche dal punto di vista delle tematiche trattate ce ne sono alcune tra le più care al mio cuore.

Tanto per cominciare, la popolazione non si divide in gruppi: non ci sono maggioranze o minoranze, ma solo individui unici. La protagonista stessa ha la carnagione azzurra e i capelli blu e tra centaure, o creature con corna altissime, oppure ali gigantesche, o ancora pelle coriacea o di colori particolari, non esiste uno standard fisico e non ci sono corpi conformi o non conformi. Tuttavia questo pone il facilmente risolvibile problema, dato che la soluzione di basa sull’ascolto dell’altrǝ, di rendere accessibile per tuttɜ i luoghi pubblici, poiché una porta potrebbe essere troppo stretta o troppo bassa per l’unǝ o l’altrǝ. In questo senso, spazi come il panificio o il negozio di marmellate sono importantissimi a livello comunitario e spesso la narrazione si concentra proprio qui, dove le persone vanno sia a nutrirsi di cibo delizioso, sia a confrontarsi, parlare di come affrontare le difficoltà che la loro cittadina sta affrontando. Il senso di coralità è palpabile sin dall’inizio quando gli scambi di leccornie, che sono piccoli lussi in un territorio sull’orlo della carestia, e piccole commissioni raccontano di una comunità pronta a proteggersi a vicenda proprio perché consapevole di doversi unire per sopravvivere. L’empatia e la gentilezza sono considerate forza, non debolezze.

Si parla di liberalizzazione della conoscenza in un momento storico complesso, perché un vecchio regime, basato sulla nobiltà che mantiene il suo privilegio anche tenendo per sé la magia, e uno nuovo sta sorgendo. The Spell Shop si apre con una rivoluzione e Kiela che fugge da una città in fiamme per andarsi a rifugiare sull’isoletta in cui è nata. Qui si rende conto di molte cose, tanto per cominciare mette in discussione la sua intera vita: c’è una discrepanza tra ciò che ha pensato di volere per tutta la vita e ciò che vuole davvero. Si rende conto che la vita a Caltrey non è una vita da cui scappare e forse il paesello delle sue origini è proprio il luogo in cui può realizzare i suoi sogni. Tendenzialmente rifuggo i libri che parlano di libri, troppo spesso c’è un mal riposto senso di superiorità che occhieggia troppo al pubblico in modo facilone, ma qui per fortuna il romanzo prende una sterzata diametralmente opposta: Kiela si rende conto che la vita fuori dalla biblioteca ha un valore, che i libri sono importanti quando la conoscenza è condivisa e che una vita di solitudine non è così auspicabile soprattutto dopo essersi auto convinta che fosse ciò che voleva. Nella grande città Kiela si era convinta che la routine fosse giusta, che andare a scuola e poi trovare un lavoro fosse giusto solo perché è così che si fa e questo non significa che le siano state imposte delle scelte, solo che spesso le nostre vite frenetiche ci inghiottono prima che ce ne rendiamo conto e spesso ne vediamo le idiosincrasie solo dopo che il ciclo si è rotto forzatamente. In determinati casi, The Spell Shop esce un pochino dai canoni del cozy perché il trauma esiste, è presente ma in un certo senso solo perché è nella natura delle cose: l’isola non è un posto dove i traumi vengono affrontati ed elaborati, ma il luogo dove ci si rifugia da essi. A ogni abitante è capitato qualcosa di brutto, ma lì ha trovato la sua serenità e grazie all’aiuto della protagonista, che, portando con sé la magia, riesce a far rifiorire l’intero borgo riuscirà. Uscire dalla crisi economica e climatica è possibile grazie a uno sforzo collettivo che mette al centro la cura degli spazi collettivi e individuali come forma della cura dell’altrǝ. 

L’assenza di violenza si porta fino alla fine, quando qualsiasi tipo di conflitto viene risolto senza mai prendere nemmeno in considerazione l’annientamento altrui, anche se personalmente ho avuto la sensazione che il finale sia stato un po’ tirato per le lunghe (per non parlare del fatto che il capitolo extra è completamente inutile a livello narrativo ed è anche inverosimile a livello immersivo). Non è un romanzo basto tanto sulla caratterizzazione dei personaggi, che sono a metà tra l’essere macchiette e tuttotondo, è l’interazione tra di loro, ma soprattutto l’ambientazione con tutto il contesto culturale che reggono il libro e lo rendono una coccola. 

The Spell Shop non è il libro della vita, questo è sicuro, ma non pretende di esserlo, vuole essere per noi un rifugio, una piccola isola felice in cui non esistono problemi insormontabili, c’è spazio per tuttɜ e le case profumano di marmellata e cannella. È stata per me una lettura sorprendente perché, nonostante tutto, si è rivelata più politica di quanto avrei immaginato prima di iniziarla.





mercoledì 18 giugno 2025

Hunger Games - L’Alba sulla Mietitura

  • Titolo: Hunger Games -  L’Alba sulla Mietitura
  • Titolo originale: Sunrise on the Reaping
  • Autrice: Suzanne Collins
  • Traduttrice: Simona Brogli
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN:
  • Casa editrice: Mondadori
Trama

All’alba dei cinquantesimi Hunger Games, i distretti di Panem sono in preda al panico. Quest’anno, infatti, per l’Edizione della Memoria, verrà sottratto alle famiglie un numero doppio di tributi rispetto al solito. Intanto, nel Distretto 12, Haymitch Abernathy cerca di non pensarci troppo, l’unica cosa che gli interessa è arrivare vivo a fine giornata e stare con la ragazza che ama. Quando viene chiamato il suo nome, però, il ragazzo vede infrangersi tutti i suoi sogni. Strappato alla sua famiglia e ai suoi affetti, viene portato a Capitol City con gli altri tre tributi del Distretto 12: una ragazza che per lui è quasi una sorella, un esperto in scommesse e la ragazza più presuntuosa della città. Non appena gli Hunger Games hanno inizio, Haymitch comprende che tutto è stato predisposto per farlo fallire. Eppure qualcosa in lui preme per combattere... e far sì che la lotta si estenda ben oltre l’arena

Recensione e commento

Un’intera generazione è stata segnata dall’uscita della trilogia di Hunger Games. Si è trattato di una dirompente novità nel panorama ya di quel periodo che ha portato al risveglio politico di molte adolescenti in un momento cruciale della loro formazione.

Ho letto e amato quella serie proprio in quegli anni, quando era un fenomeno pop al suo apice, per cui capirete la trepidazione mista ad ansia con cui mi approcciai a La Ballata dell’usignolo e del serpente, pubblicato quando ormai ero adulta e rischiavo di trovarlo deludente. Temevo potesse trattarsi di un prodotto fanservice che non avrebbe avuto nulla da dire e invece, felicemente, dovetti ricredermi perché quel romanzo, politologicamente perfetto, raccontava di tutte le piccole scelte, dei bivi della vita che alla fine portano un cattivo a diventare tale, tramite una catena di eventi che lo conduce a commettere atti orribili e per essi autoassolversi

Eppure, un po’ me lo sentivo che il libro su Haymitch non sarebbe stato all’altezza sia perché è successo quello che temevo inizialmente riguardo al romanzo su Snow, un po’ perché nonostante ci potessero comunque essere degli spunti interessanti da approfondire, restano comunque delle grandi occasioni mancate.

Già la premessa in sé è molto più traballante rispetto a ciò a cui l’autrice ha abituato il suo pubblico, perché di per sé scrivere un libro su Haymitch è già sintomo di un prodotto fanservice: noi sappiamo già tutto su di lui. Sappiamo che ha vinto gli Hunger Games, per cui viene tolta completamente la tensione che tiene incollate alle pagine, sappiamo persino le modalità attraverso le quali vince perché ci vengono raccontate il La ragazza di Fuoco, sappiamo che è diventato un alcolista a causa di tutti i ragazzini del suo distretto che ha visto morire anno dopo anno, senza poter fare nulla per salvarli. Sappiamo che Haymitch è un sopravvissuto che non è mai davvero uscito dall’arena nonostante tutta la sua voglia di vivere, e per quanto da un lato questo sia proprio l’aspetto che avrebbe dovuto essere maggiormente sfruttato, mostrandoci come Haymitch sia diventato l’Haymitch che conosciamo, dall’altro lato questo non solo non succede, ma addirittura resta un protagonista estremamente passivo.

L’Alba sulla Mietitura non rende omaggio a Haymitch perché cerca di fare qualcosa di diametralmente opposto ai libri che hanno Katniss come protagonista e nel farlo risulta parodistico, risulta la fanfiction di sé stesso, e sembra un’appendice attaccata a posteriori che non si incastra bene con la trilogia principale. Infatti, gli Easter egg sono forzati, i personaggi tanto amati della trilogia entrano in scena in maniera poco credibile, al punto da fare sembrare sia Capitol City, sia il Distretto 12 dei piccoli villaggi con pochissime persone, non degli Stati o delle grandi città. Questo crea dei problemi anche a livello di cifre, perché a un livello puramente matematico tutti i ragazzi e tutte le ragazze un anno o l’altro finirebbero sul palco del giorno della mietitura, proprio in virtù del numero ridotto, così come crea dei problemi il cast ridottissimo di personaggi di Capitol City. Le possibilità narrative per inserire personaggi secondari erano vaste, ma Collins ha creato delle situazioni inverosimili raffazzonate che altro non sono che fanservice.

Purtroppo non finisce qui, perché i difetti continuano. L’elemento che più mi ha dato fastidio è la totale mancanza di merito nella sua vittoria. Katniss aveva vinto perché era una proverbiale tempesta perfetta: una persona con delle abilità specifiche in un luogo adatto alle sue esigenze, mentre Haymitch è un miracolato, non vince per ablità o scaltrezza, ma perché qualcuno dall’alto ha deciso così per motivi politici e questo espediente, tra l’altro, viene sfruttato pochissimo perché come espediente poteva non essere male, ma manca totalmente l’immersione. Haymitch non ha motivi validi per comportarsi come fa e le sue emozioni sono sempre troppo blande per essere credibili. Si presenta in gara già sconfitto, non deciso a sopravvivere e questo è un elemento che stride terribilmente con il personaggio che ci è stato presentato nella trilogia. Non ha senso che un vincitore che dà ai suoi tributi il solo consiglio di “restare vivi” una volta nell’arena sia un tale disastro nel voler portare a casa la pelle, ritenendosi quasi un agnello sacrificale per cause più grandi. Non funziona proprio a livello narrativo nell’ottica selle serie nel suo complesso, anche se poteva funzionare, a livello puramente teorico, se il romanzo fosse  autoconclusivo. Haymitch doveva essere un vincitore, non un vincente: avremmo dovuto fare il tifo per lui sapendo già come sarebbe andata a finire, ovvero con lui alcolista e depresso, ma qui assistiamo a una persona eccessivamente idealista per farsi piegare, non vediamo, se non proprio sul finale tirato via, la persona che diventerà nella trilogia. Non ci viene raccontato un ragazzo che vince a dispetto delle probabilità, con le unghie e con i denti che che esce dall’arena senza che l’arena esca veramente da lui, ci viene mostrato un rivoluzionario a cui è andato male il colpo di stato e ciò è incoerente rispetto a ciò che sappiamo di lui dalla serie principale. Inoltre, sono moltissimi le contraddizioni rispetto ai libri su Katniss: stando agli eventi a cui assistiamo qui spesso Haymitch dovrebbe sapere delle cose che non sa, dire delle cose che non dice, avere delle opinioni che non ha. È questo che intendo quando dico che non è uno spin off che si sposa bene con la serie principale: la confuta in troppe occasioni.

Haymitch assomiglia a Katniss in tutte le cose sbagliate, in piccoli momenti citazionisti vuoti di significato, non in ciò che li ha uniti e consentito di capirsi anche nei silenzi. È come se Collins nel cercare di rendere la storia qualcosa di nuovo abbia in realtà stiracchiato tutto in modo tale da sfibrare la storia e renderla vuota e nel cercare di dire qualcosa di nuovo crea ridondanze dove non dovrebbero essercene.

Il messaggio che l’autrice intendeva mandare attraverso questo romanzo è la capacità dei media di manipolare le informazioni, creando delle narrazioni divergenti dalla verità e che rendono le persone coinvolte impotenti di raccontare la propria versione. Bello sulla carta, ma inefficace nell’esecuzione, che si perde in una storia talmente inverosimile, parodistica di sé stessa e a tratti barocca che rende la trama sopra le righe ma il contenuto troppo blando.

In conclusione, L’alba sulla mietitura è un libro scarico, privo del senso di critica dei suoi predecessori e che non ha molto da dire. È uno spin off che non rende omaggio al suo protagonista e gli fa fare brutta figura. Spero che Suzanne Collins si ravveda e riprenda a scrivere solo quando ha qualcosa da dire. 

mercoledì 4 giugno 2025

Two Twisted Crowns

  • Titolo: Two Twisted Crowns
  • Titolo originale: Two Twisted Crowns
  • Autrice: Rachel Gillig
  • Traduttrice: Lucia Feoli
  • Lingua originale: inglese
  • Codice ISBN: 9788809979499
  • Casa editrice: Giunti
Trama


Nel capitolo conclusivo della dilogia, Elspeth deve affrontare il peso di ciò che ha fatto, mentre lei e Ravyn si imbarcano in una pericolosa missione per salvare il regno ormai in preda a un re tiranno e alla magia nera. Elspeth e Ravyn hanno raccolto la maggior parte delle dodici Carte della Provvidenza, ma l'ultima – e la più importante – resta da trovare: gli Ontani Gemelli. Per recuperarla prima del Solstizio e liberare il regno, dovranno attraversare l'oscura foresta avvolta dalla nebbia. L'unico che può guidarli è il mostro che abita la mente di Elspeth, l'Incubo, ma lui non sembra più disposto a collaborare…

Recensione e commento

Il verbo “spremere” è spesso utilizzato con accezione negativa. “Mi ha spremuto come un limone” si dice quando una situazione ci prosciuga le energie. Eppure, la spremitura di un frutto di per sé non serve a prosciugarlo, ma a trasformarlo in qualcosa di diverso, spesso di più raffinato ed evoluto e ciò vale sia per la spremuta d’arancia, sia per la spremitura dell’uva per fare il vino. 

In questo senso, Two Twisted Crowns non è stato spremuto. È rimasto un acino d’uva, potenzialmente brunello di Montalcino ma mai diventato tale. E la colpa di ciò non è esclusivamente di Rachel Gilling, che visibilmente mancava dell’esperienza necessaria per fare di meglio, ma anche di tutto lo staff che non l’ha adeguatamente accompagnata nella stesura di un romanzo che si accontenta di essere ciò che è e non di ciò che potrebbe essere.

Perché non è possibile che un* editor professionista non abbia colto tutte le contraddizioni che sin dalle primissime pagine si susseguono: flussi di coscienza di personaggi che credono, come nel più classico bipensiero orwelliano, che due cose contraddittorie possano essere contemporaneamente vere. Delle figure professionali avrebbero dovuto accorgersi che troppe volte le dinamiche delle scene non sono chiare, rimangono aleatorie e poco verosimili e spaziano dalle scene di combattimento in cui i persinaggi si feriscono in modi non identificabili, a scene che dovrebbero essere un po’ sensuali ma che inevitabilmente rompono il patto di veridizione quando un personaggio si sfila gli stivali dai piedi soltanto dopo essere già rimasto in biancheria intima. 

A Two Twisted Crowns mancano direzione e chiarezza di intenti e ciò è palese sin dall’inizio, perché se in One Dark Window la voce narrante corrispondeva al punto di vista di Elspeth, qui assistiamo a una sterzata improvvisa e vediamo un’alternaza di pov tra Ravyn, Elspeth ed Elm. Quest’ultimo è unicamente incentrato sulle paturnie amorose di Elm verso il suo interesse amoroso, mancando completamente il punto della narrazione: ci sarebbe una maledizione da spezzare, in teoria, ma questi due pensano solo ad accoppiarsi. I capitoli a loro dedicati sono quelli che occupano più spazio, eppure sono anche quelli meno interessanti perché non raccontano nulla che sia funzionale alla trama. Oltre a questo, a mio avviso la cosa più grave in assoluto è che il sistema magico venga costantemente piegato alle esigenze di trama. È un continuo fare eccezioni per l’uno o per l’altra che dovrebbero subire determinati effetti della magia ma questo non succede mai.  I motivi non ci sono dati sapere, ma è chiaro che tutto è funzionale a mantenere intatta l’impenetrabile plot armour del cast.

Allo stesso modo, non si contano nemmeno gli dei ex machina, in particolare, la quest che gli altri personaggi affrontano, quelli che non sono in balia dei propri ormoni, è totalmente senza senso: il risultato che si ottiene è lo stesso che si sarebbe ottenuto comunque, anche senza di essa, la qual cosa mi è sembrata una mancanza di rispetto nei confronti del tempo che ho speso per arrivare alla fine e scoprire che è stata tutta una presa in giro. Inoltre, la struttura stessa quella quest non tiene perché le tempistiche sono gestite male: per andare da A a B si impiega circa tre giorni, mentre da B ad A basta una mezza giornata. Di nuovo: ma l’editor?

Ennesimo vorrei ma non posso è tutta la parte dedicata a Elspeth, persa nella propria mente. Mi duole dire che questa sia stata la peggiore occasione sprecata di tutto il romanzo, perché avrebbe potuto essere un viaggio dentro sé stessa, alla ricerca del proprio io mentre affrontava i suoi demoni, i traumi, le sue paure. E invece resta lì e incontra gente, mentre aspetta passivamente che le cose accadano. E in questo senso, anche l’Incubo, un personaggio interessantissimo nel primo libro, perde tantissima potenza, rivelandosi per niente di più che l’ennesimo deus ex machina con dei poteri francamente ridicoli e che non fanno nessuna paura. Tutto ciò che nel primo volume era interessante ma in fase embrionale, qui non trova né sviluppo né risposte, confermando che, con tutta probabilità, la trama non è stata concepita in modo organico nell’ottica dei due volumi. 

Mi intristisce il pensiero di ciò che questa dilogia avrebbe potuto essere e invece alla fine si è rivelata una doppia mancanza di rispetto sia verso l’autrice, che non è stata aiutata professionalmente, sia verso di noi, che ci stiamo abituando a storie sempre più scadenti.

Not Quite Dead Yet

Titolo: Not Quite Dead Yet Titolo originale: Not Quite Dead Yet Autrice: Holly Jackson Traduttore: Paolo Maria Bonora Lingua originale: ing...